Cambodian blues
Certe volte quando viaggi ti senti proprio un ignorante. Poi, assalito dagli scrupoli che i tuoi studi precedenti ti instillano, cerchi di colmare le lacune leggendo qualche nozione sulla guida. Sfogliando i quattro cenni storici che la sempre incompleta Lonely Planet ti offre, tiri un sospiro di sollievo e visiti i luoghi turistici con più serenità. Ma quando arrivi a casa e magari ti leggi un libro serio sul paese appena visitato, lì ti senti proprio un fesso. Mi è successo tornando dalla Cambogia, paese con alle spalle una storia molto più sanguinaria di quello che io potessi immaginare. Ed a quel punto ho reinterpretato anche alcuni segnali mostrati dalla sua gente, la sua ingenuità disarmante, il suo essere facile preda di qualsiasi vizio turistico.
Mi ricordo che mi avevano colpito le orchestrine al lato dei maestosi templi nella giungla che, sistemate scomodamente in gazebo di legno e foglie, accompagnavano le mie visite con melodie davvero molto orientali e tristi – flauto e tamburi. La cosa singolare era che quasi tutti i suonatori erano mutilati o soffrivano di qualche handicap molto invalidante. Chiedo formalmente perdono, hic et nunc, se ho subito pensato ai film di Hollywood ed ai famosi vietcong che saltano sulle mine americane. Quello è il Vietnam ed io non ci sono nemmeno stata. Certo, indossano lo stesso cappellino a cono di paglia ed anche la Cambogia ha subito dei bombardamenti ma, in tempi più recenti, ha patito ferite ulteriori e dilanianti perché un terzo della popolazione è stato massacrato durante i quattro anni del regime di Pol Pot. Era il 1977, in cui tra l’altro sono nata io, e mentre da me avanzavano soldi per un bel fiocco rosa sulla porta, lì c’erano bambini che iniziavano a morire di stenti con genitori che cadevano sotto i colpi delle torture nei campi di detenzione. Tutto per il progetto assurdo di creare il perfetto uomo nuovo Khmer, un essere puro e primitivamente comunista.
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Mentre passavo con la mia cartina dispiegata in mezzo alle rovine, ricordo molti ragazzini che cercavano di vendermi libri in inglese, proprio sulla storia di questo genocidio. Era una novità perché di solito i locali ti vendono piccoli manufatti oppure cartoline e quadretti. Eppure io li ho scacciati perché credevo mi chiedessero “troppo” per quei libretti. Chissà chi li aveva scritti, pensavo come per sfuggire a quella vocina che ti assilla dicendo: “dai, questa volta compra”. Poi c’era anche quello snobbismo che ti fa invece sentenziare : “ma, no per favore … chissà poi chi l’ha scritto!”.
Ho sbagliato, anche perché i libri degli storici inglesi sono spesso abbastanza obiettivi e meticolosi. In ogni caso, la mia conoscenza era talmente scarsa che una prima infarinatura, fossero anche state le memorie dell’ex lattaio, sarebbe andata benissimo.
Avrei senz’altro capito quel timore che avevano nel parlarmi i due uomini alla reception dell’hotel, o la ritrosia di alcuni guidatori di calessini di fronte alle mie escandescenze occidentali. Sì perché ci faceva arrabbiare la loro impotenza di fronte alle nostre semplici esigenze, quel loro mutismo in cui gli occhi diventavano improvvisamente a palla. Volevamo solo andare all’hotel che si trovava a un indirizzo sperduto, oppure farci mettere in contatto con una compagnia aerea locale e mandare un pacco all’estero. Cose scontate per paesi che hanno una certa tradizione turistica ma noi, è il caso di dire, ci trovavamo davanti a dei poveri superstiti, gente che forse addirittura grazie alla propria ingenuità e semplicità era riuscita a rimanere in vita. Sì perché’ tutti i cambogiani hanno vissuto in prima persona il massacro e quelli che ora hanno sui 50 anni all’epoca erano adolescenti. Per saperne di più, comunque, vi consiglio il libro “L’eliminazione” di Rithy Panh oppure, veramente, comprate quelli degli ambulanti di Angkor Watt: farete un affare e pure una buona azione.
Io invece rimango con le domande che avrei voluto fare, con le tante pianure verdemente desolate nel cuore e un piccolo proposito: cercare di documentarmi prima.
Cambodian blues di Alessia Biasatto è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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