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  • ALESSIA BIASATTO

    Selezione da

    TRE NOVELLE SPIRITUALI

    PABLO KATCHADJIAN

    Dopo due giorni di ricerche, trovammo il poeta nel fitto della vegetazione, nascosto nella cavità di un tronco. “Esci di lì”, gli dicemmo, ma lui, tremando, ci rispose che lo lasciassimo dormire. “Non è ora di dormire!”, gli dicemmo e, tra le risate generali, lo tirammo fuori dal buco. Allora lui si buttò per terra raggomitolato, proteggendosi la testa come se stessimo per prenderlo a calci. Forse per questo gli tirammo qualche calcetto e poi, soddisfatti, lo afferrammo per le braccia, lo tirammo su e, a furia di spintoni, lo obbligammo a camminare. Fu a quel punto che il poeta, ammaccato e con il sangue che gli usciva dal naso, si tirò su e ci disse: “Vi capiterà qualcosa…” “Ah sì? E cosa ci capiterà?” gli chiedemmo. “Non lo so”, ci rispose con un sorrisetto deforme. Uno dei nostri gli diede un colpo secco e contundente sulla nuca e tutti scoppiammo a ridere. “Che ci succederà? Eh, poeta?” insistemmo. Ma lui rimase zitto, forse confuso dal colpo, e noi ridemmo di nuovo.
    Quando arrivammo al villaggio, la folla che ci aspettava, vedendo che il poeta era con noi, iniziò ad applaudire. “Somaro!” gli gridavano. E anche: “Bugiardo!”. Risate e applausi, in generale, ma anche qualche faccia preoccupata, visto che ciò che facevamo comportava un rischio: se il poeta era un vero poeta, sulla comunità sarebbe ricaduto un castigo. Tuttavia, quando ci ordinarono di andare a cercarlo, i saggi ci avevano detto che lui non era un vero poeta, ma un somaro e un bugiardo, e che ciò, in aggiunta alla sparizione – che loro avevano interpretato come la morte – della giovane e attraente fanciulla che era innamorata di lui, li autorizzava a dargli la caccia; avevano detto: “Non solo è un somaro e un bugiardo, ma addirittura provoca la morte di una ragazza giovane e attraente che lo ama e, così facendo, disprezza non solo la poesia ma anche l’amore? E, come se non bastasse, poi scappa per sfuggire alle conseguenze delle sue azioni?
    Come da abitudine rituale, lasciammo il poeta legato a un palo nella piazza centrale, di modo che la gente lo insultasse per un giorno intero. E lo insultarono senza tregua. A un certo punto ci fece un po’ pena, perché il poeta piangeva, ma i saggi dissero che non doveva farci pena, e dissero al poeta che era un somaro. A quel punto, per fortuna, il poeta iniziò a insultarli anche lui. Non a insultarli, in realtà, ma a ribattere con cose assurde. Disse, per esempio: “Somaro è chi vi dà il materiale”. E ancora: “Tra qualche anno i vostri nipoti mangeranno la minestra che avete preparato voi”. Alcuni, spaventati e a disagio, tentarono di discutere con lui: gli lessero i versi che aveva pubblicato e gli domandarono se realmente gli sembrassero di valore. Allora il poeta si fece serio e rispose che il suo unico errore era stato il non prevedere che si sarebbero sforzati tanto a non comprendere i suoi umili scritti. “Pedante, oltre che somaro e bugiardo” disse uno dei saggi. Alcuni poeti ufficiali dissero, per dar man forte a quest’idea, che i suoi versi erano pessimi, e spiegarono in maniera puntigliosa e marziale il perché in essi non vi fosse niente da capire. Ci furono segnali di approvazione, e dunque qualcuno domandò al poeta se voleva discutere con i poeti ufficiali, però lui si negò: disse che sarebbe stato come se un’oca avesse discusso con i topolini che si doveva mangiare. Ciò provocò risate e insulti.
    Il giorno dopo, di mattina, il poeta era scappato. Quando i saggi ispezionarono il palo per vedere se qualcuno lo aveva slegato o se lui da solo si era liberato, trovarono una frase incisa nel legno che li fece andare su tutte le furie: “Chi sugge i fiori diventa un ape”. Parlava di sé stesso o di noi? Chi suggeva i fiori? “I cattivi poeti succhiano i fiori” dissero i savi, e interpretarono il messaggio come una cattiva metafora sulla fuga: se ne era andato via volando. E, dissero, aveva inciso il messaggio con il suo pungiglione, motivo per cui, come le api quando lo usano, adesso stava morendo in qualche luogo solitario. Non avevamo voglia di andare a cercarlo, e sperammo che magari, se stava morendo, i savi ci avrebbero dispensato dallo sforzo, ma una di loro disse: “No, stiamo mal interpretando, questa è un’altra provocazione: quelli che chiama succhia-fiori, api, siamo noi”. Cosa c’è di male a essere chiamato ape?” domandammo, e un altro saggio disse: “le api sono operaie, vivono in comunità, costruiscono, ecc. Ma ciò per lui significa succhiare i fiori ed essere un insetto. Il poeta ci prende in giro un’altra volta con un pessimo verso”. Così, ci mandarono di nuovo a cercarlo.

      Andammo al tronco dove lo avevamo visto la scorsa volta ma lì non c’era. Seguitammo nel cammino ed arrivammo al mercato di un villaggio vicino dove facemmo la spesa con i soldi comuni.