Capitolo 1
Erano già due ore che aspettavo nella gabbia di legno insieme agli altri duecento schiavi. Il porto mi sembrava sconosciuto e allo stesso tempo familiare; volevo domandare il nome dell’isola a quello che mi stava accanto ma mi sembrava fosse svenuto, quindi mi girai e vidi che di svenuti ce n’erano parecchi. Improvvisamente aprirono la gabbia e tutti quelli che stavano bene, incluso me, uscirono su di una gradinata. Per quanto mi riguarda, mi comprarono subito perché godevo di buona salute e perché sembravo perfettamente a posto, almeno da ciò che diceva il mio acquirente, un uomo sui cinquant’anni, pelato, simpatico, non molto alto e un po’ grassoccio, che si chiamava Anìbal. Montammo sulla sua auto e mi portò a casa sua, un castello costruito su di un’altura del terreno. Dalla finestra della mia stanza si vedeva il porto come se fosse una miniatura; quel pomeriggio passai ore contemplandolo, bevendo e mangiando ciò che una serva molto vecchia e incurvata mi allungava di tanto in tanto. Su indicazione di Anìbal, andai a dormire presto: mi aveva detto che ci aspettava un giorno di lavoro abbastanza lungo.Capitolo 2
Il giorno dopo mi svegliai e vidi la colazione sul comodino. Avvicinai la mano alla teiera e sentii che era calda. Mi alzai e aprii la finestra. La giornata era piacevole, né calda né fredda ed il porto era in piena attività. Arrivavano barche con gabbie piccole, da venti o trenta schiavi, e quasi sempre succedeva lo stesso: un impiegato del porto entrava nella gabbia, tirava fuori i malati o svenuti e li portava in un posto che non si riusciva a vedere dalla finestra; dopodiché le vendite avvenivano rapidamente; certe volte un uomo comprava una gabbia intera e allora, dopo aver pagato l’impiegato, lasciava uscire i cinque schiavi più forti e faceva metter loro la gabbia su di una piattaforma a rotelle; dopodiché, questi cinque schiavi trascinavano la piattaforma e la spostavano rapidamente lungo un percorso verde che si perdeva nella montagna.
Tornai al comodino e mi servii il tè nella tazza. Mangiai un po’ di pane e formaggio e bevvi un sorso di tè. Pian piano mangiai tutto e, quando stavo masticando l’ultimo pezzo di pane, Anìbal da sotto gridò il mio nome. Mi affacciai e lo salutai. “Scendi subito!” mi gridò. Mi vestii e scesi. Anìbal mi disse che aveva bisogno che lo aiutassi in una cosa. Dopo averlo detto rimase zitto, così mi toccò domandargli cosa fosse tale cosa. “Beh, guarda, una cosa senza importanza”. “Sta bene”. Allora mi raccontò cosa fosse ciò di cui aveva bisogno e io gli dissi ok, che non c’era alcun problema, anche se in realtà fare ciò che mi chiedeva non mi andava a genio. Così passai tutta la notte portando a termine l’incarico e, appena tornai al castello, mi feci la doccia per pulirmi lo sporco che avevo su tutto il corpo; per quanto l’avessi fregato con una spugna, le mani mi rimasero nere; inoltre, un odore disgustoso di pesce marcio e di cadavere mi era rimasto impregnato nei capelli. Era l’odore dell’umiliazione e della schiavitù. Guardai dalla finestra ma gli occhi affaticati e irritati dal calore e dai gas non mi permettevano di veder bene niente. La prossima volta, pensai in quel momento, avrei preteso da Anìbal dei guanti e degli occhiali, e anche degli stivali.
Erano già le sette, era stato un lungo lavoro; decisi di fare un giro per distrarmi. Camminai lungo il prato per alcuni minuti e mi sedei in un boschetto con la schiena appoggiata a un albero. Guardando l’albero che avevo di fronte pensai a Nìnive e in quel momento stesso udii il grido di una donna. Mi alzai e iniziai a cercare da dove provenisse. Man mano che il bosco si faceva più fitto le grida diventavano più forti. Di colpo vidi Anìbal e Nìnive. Mi nascosi dietro un albero e li osservai: correvano come se stessero giocando, ma in realtà, me ne accorsi subito, quello che giocava era Anìbal, perché Nìnive sembrava terrorizzata. Il gioco di Anìbal consisteva nel correre dietro a Nìnive con un bastone nodoso; ogni volta che la raggiungeva, la picchiava sulle gambe e lei cadeva per terra; allora Anìbal lasciava che si alzasse, lei correva di nuovo e lui la raggiungeva di nuovo e la picchiava. Continuai a seguire la scena nascosto tra gli alberi fino a che, in un momento determinato, Anìbal, invece di lasciare che si alzasse, le si buttò addosso e iniziò a strapparle i vestiti. Quando finì di spogliarla la picchiò un po’ con il bastone, svogliatamente, e se ne andò. Nìnive rimase da sola, a piangere. Volevo avvicinarmi, ma non ne ebbi il coraggio; rimasi a guardala fino a che smise, si coprì un po’ con i vestiti rotti e se ne andò.
Tornai nella mia stanza, chiusi la porta e subito bussarono: era la serva vecchia, che veniva ad avvisarmi che Anìbal voleva cenare con me. Scesi nella sala da pranzo, un po’ nervoso. Anìbal mi aspettava seduto al tavolo, da solo. C’era un pollo enorme e delle patate al forno. Anìbal era di umore molto buono; si alzò, mi abbracciò e mi invitò a sedermi accanto a lui. “Il pollo è per me”, disse: “tu cosa vuoi?”. “Va benissimo il pollo”. “No, il pollo è per me, e non ce n’è altro. “Vuoi degli spaghetti?”. “Okey”. Allora Anìbal gridò “spaghetti!” e si mise a mangiare il pollo come un animale. Si sbrodolava la faccia, le mani, le braccia e persino la testa; ogni tanto sputava qualcosa che non gli piaceva. Quando terminò, si alzò in piedi e se ne andò senza salutarmi. Rimasi solo al tavolo, aspettando gli spaghetti che non arrivarono mai.
Quando salii in stanza, affamato e ripensando con odio ad Anìbal, trovai un messaggio di Nìnive in cui diceva che quella notte mi aspettava in camera sua e mi dava indicazioni su come arrivare. Alla fine del messaggio diceva. “Sarà divertente!!!!!”. E sotto la frase c’era una faccetta orribile che pretendeva di essere simpatica; più o meno era una di quelle facce che uno vede quando… Volevo andare da Nìnive ma avevo fame. E allora, mosso probabilmente da un olfatto che non arrivava ad essere conscio e di cui non potevo disporre ogni volta che volevo, aprii il cassetto del comodino e trovai un pacchetto di crackers, un pezzo di formaggio e di salamino. Sotto il pacchetto di crackers c’era un bellissimo coltello, abbastanza grande e affilato, con il manico di legno e una forma interessante, liscia e animale. Con il coltello tagliai alcuni pezzi di formaggio e li misi sui crackers, poi tagliai delle fette di salamino e le misi sul formaggio. Mi mangiai tutto e nel frattempo, distrattamente, mi misi a incidere il mio nome con il coltello sul legno del comodino. Mi resi conto di ciò che avevo fatto quando finii di mangiare. Coprii i segni con il libro sulle posizioni sessuali, afferrai le indicazioni di Nìnive e uscii. Avanzai come in teoria andava fatto, dritto per un corridoio che si snodava perpendicolare alla mia stanza, che mi ricordò qualcosa. Arrivai, quindi, a una finestra sprangata e a fianco vidi le scale di marmo; guardai indietro e lì c’era la scaletta metallica. Scesi con cautela e arrivai a un pavimento di terra; camminai per di là fino a uscire dal castello e, senza allontanarmi dalla parete arrivai a una porta di metallo dipinta di celeste. Entrai. Era abbastanza buio e l’odore era rivoltante. Camminai ancora fino ad arrivare alla porta da dove filtrava luce; la aprii e mi ritrovai di nuovo nel castello; camminai dritto ed arrivai ad un corridoio curvo; il messaggio di Nìnive non diceva nulla della curvatura, e questo mi preoccupò; alla fine del corridoio arrivai a uno spazio come quello che si vedeva uscendo dalla mia stanza, ma diverso, un po’ più trascurato e decadente; continuai per un corridoio, poi lungo un altro e lì apparve un buco nel pavimento. C’era qualcosa che non andava. Tornai indietro, uscii di nuovo dal castello, entrai da un’altra porta, arrivai a una parete, salii una scala e arrivai in una stanza piena di trofei di caccia; uscii spaventato e mi infilai nella stanza accanto, che era una biblioteca; quando entrai una serva molto giovane che leggeva un libro si alzò in piedi impaurita e si tranquillizzò quando vide che ero io: “pensavo che fosse Anìbal” disse sospirando, e mi spiegò, senza che glielo domandassi, come arrivare alla stanza di Nìnive; allora tornai indietro e in due minuti arrivai alla porta di Nìnive. “Ci hai messo molto!”, mi disse come indispettita. “Sì, mi sono perso”. “Ma se avevi le istruzioni…”. “Non so, mi sono perso lo stesso”. “Ora è tardi”. “Per cosa? Tardi per cosa?”. “Anìbal può arrivare da un momento all’altro”. “Anìbal?”. “Sì”, disse e iniziò a piangere e mi abbracciò. Io pure l’abbracciai, con timidezza all’inizio, con un po’ di affetto dopo, e Nìnive si calmò e mi disse che era vero, che Anìbal andava da lei tutte le notti e le faceva cose terribili. “Terribili!”, ripeté. “Terribili? Quali cose?”. “Non posso dirtelo, sono terribili!”. Allora udimmo un rumore e lei mi disse “corri lungo il corridoio” e io me ne andai e arrivai molto velocemente alla mia stanza.
Mi misi a sedere sul letto e quasi di riflesso guardai il comodino: c’era attaccato un messaggio. Era di Anìbal, che mi chiedeva di fare una serie di cose e mi dava le istruzioni, che non erano poi così chiare; alla fine diceva: “quando poi lo vedrai ti renderai conto di quello che devi fare”. Furioso, appallottolai il messaggio e lo tirai contro il muro ma non raggiunse il muro perché la pallina era molto leggera e non era abbastanza compressa. Questo mi fece arrabbiare ulteriormente. Gridai come una bestia, anche se non molto forte. Deciso a portare a termine l’incarico più rapidamente possibile, presi la pallina di carta, la aprii, la allisciai, la piegai e me la misi in tasca; uscii, afferrai gli attrezzi di una cameretta che stava vicino alla cucina e, ormai fuori dal castello, camminai nella direzione che Anìbal mi aveva indicato nel messaggio. Dopo dieci minuti, arrivai a un capanno. Entrai e sentii il desiderio di piangere quando capii ciò che mi veniva richiesto. Mi inginocchiai per terra, appoggiai la testa contro la terra e intonai, a voce alta, l’unica preghiera che avevo imparato da ragazzo: per favore, Dio, aiutami a superare le incongruenze”. Quando finii di pregare mi sentii un po’ meglio e mi misi a lavorare come un maiale nel bel mezzo del marciume. All’inizio ero molto lento, stomacato dall’odore; due o tre volte vomitai e credo di essere svenuto una o due volte. Di lì a poco, comunque, iniziai a dimenticarmi di ciò che facevo e iniziai ad agire meccanicamente.
Cinque ore dopo, con il sole appena sorto, tornai al castello. Il portone principale era chiuso a chiave. Andai alla porta sul retro, ma era chiusa anche quella, cosicché mi buttai lì davanti e mi addormentai sul pavimento. Alcune ore dopo la serva aprì la porta, mi svegliò e mi fece passare. Quando arrivai in camera mia fui sul punto di buttarmi sul letto sudicio com’ero ma non lo feci, per il timore di non poter cambiare le lenzuola dopo. Mi spogliai, allora, e mi feci la doccia, ma lo sporco non andò via del tutto.
Capitolo 3
Il giorno dopo, quando aprii gli occhi, la prima cosa che vidi fu la montagnetta della mia roba sporca accanto al letto. Avevo sognato ciò che avevo fatto e non occorreva esagerare per considerarlo un incubo. Mi alzai e aprii la finestra. La giornata era gradevole, né calda né fredda, e il porto era in piena attività. Vidi Nìnive lì dove iniziava il bosco; era accompagnata da una serva e indicava un albero. Presi il mio formaggio e i miei crackers e mangiai un pochino. Mentre mangiavo, mi accorsi che il formaggio aveva delle macchiette verdi; le macchiette, che in un altro momento non mi avrebbero disturbato, mi schifarono moltissimo e smisi di mangiare: nel mio lavoro della notte prima avevo visto macchie verdi di tutti i tipi. Tornai alla finestra per prendere un po’ d’aria. Nìnive e la serva vecchia stavano ritornando al castello. All’entrata, sotto la mia finestra, si incontrarono con Anìbal e gli dissero che dovevano mostrargli una cosa. “Cosa?”, domandò Anìbal, di buon umore. “Una bambina, una bambina sudicia”, gli rispose la vecchia. “Una bambina?”. “Sì una bambina-mostro, una bambina animale” insistette. Anìbal guardò Nìnive e le domandò cosa stesse succedendo ma Nìnive abbassò lo sguardo. “Bah”, disse Anìbal, e per qualche motivo alzò lo sguardo e mi vide. Il mio primo impulso fu di nascondermi, e lo feci, ma subito tornai ad affacciarmi con indifferenza. “Ho bisogno del tuo aiuto, è successa una cosa”, mi disse Anìbal. “Mi sono appena svegliato”, gli risposi, pensando che avrebbe avuto un po’ di riguardo per il lavoro che mi aveva commissionato la notte prima. “Non importa, scendi rapido e vieni nel bosco”. Allora pensai che non potevo mettermi i vestiti del giorno prima e che non avevo altro ma, in qualche maniera, mentre parlavo alla finestra, qualcuno era entrato e si era portato via la montagnetta di roba sporca e mi aveva lasciato un’altra pila di roba pulita. Afferrando i vestiti puliti vidi, come in contrasto, la sporcizia che avevo appiccicata a tutto il corpo; sentii anche l’odore schifoso, quello di pesce marcio, che mi era rimasto impregnato nei capelli. Era l’odore dell’ umiliazione e della schiavitù; gli occhi stanchi e irritati dai gas tossici mi facevano vedere sfocato. Quando Anìbal mi urlò di sbrigarmi, mi misi la roba pulita e scesi.
Corsi fino al bosco e li raggiunsi: tutti e tre guardavano la chioma di un albero. “Shh”, mi disse Nìnive, con un sorriso. Guardai verso su; in un primo momento non vidi nulla ma, dopo un po’, un movimento catturò la mia attenzione. “È una scimmia”, dissi, e gli altri tre risero. “Shh”, mi disse di nuovo Nìnive. “È una bambina animale, un mostro”, disse la serva vecchia. “Una, cosa?”, domandai. “È ciò che si usa chiamare una ‘bambina selvaggia”, mi rispose Anìbal. “Sul serio? Una bambina selvaggia nel senso…”, gli domandai. “Sì, sono molto impressionato”, mi rispose. Allora guardai e vidi meglio, era una bambina molto sporca e spaventata. “Dai, scendi”, le disse Anìbal con un tono affettuoso che mi fece venire la pelle d’oca, ma la bambina non lo ascoltò. “Facciamo una cosa”, disse Nìnive: “voi ve ne andate e ci lasciate sole a noi due”. Anìbal ed io ci allontanammo di qualche metro e vedemmo come la serva vecchia strappava, con molta delicatezza e, ci sarebbe da dire, sapientemente, alcune radici, e le dava a Nìnive; e come Nìnive in punta di piedi, appoggiandosi al tronco dell’albero, passava le radici alla bambina. Quindi la manina lercia scendeva giù e le afferrava. Rimasero lì così per un po’, senza successo, perché la bambina, nonostante l’insistenza e i sorrisi di Nìnive, non volle scendere. “Intelligente…”, dissi, e Anìbal mi guardò irritato. “Che c’è?”, gli domandai. “Sei un cretino”. “Perché?”. “Non può essere intelligente, è come un animale”. “E allora?”. “L’intelligenza cos’è, sentiamo?” Ci pensai un po’. “Non lo so”. “Allora non parlare”, mi disse con disprezzo e si avvicinò alle donne. Andai lì anch’io muovendomi con dei passetti rapidi. Anìbal ci disse che lui se ne doveva andare, ma che noi rimanessimo lì e non la perdessimo di vista, perché era molto interessato alla bambina selvaggia. Si accomiatò dalle donne e mi domandò come fosse andata la notte prima. “Bene”, dissi. “Perfetto. Vado in città, ti serve qualcosa?”. “In città? C’è una città?”. “Sì, c’è una città, chiaro.” “Il porto?”. “No, non il porto, la città”. “La città? Dove sta?”. “Sull’altra punta dell’Isola”. “Quale punta?”. “Il porto è a sud e la città a nord”. “Ah, non lo sapevo”. “Dunque? Ti serve qualcosa? Guarda che è una città grande, c’è di tutto…”. Allora tentai di pensare a qualcosa ma non mi venne in mente niente e dissi di no. Rimasi lì con Nìnive, la serva vecchia e la bambina sull’albero. Nìnive mi disse: “Ho paura: se non riusciamo a tirarla giù e portarla al castello, Anìbal si infurierà con me. “Cosa vuoi dire?” le domandai. “Che Anìbal si arrabbierà con me”. “Ma cosa ti fa?”. “Come cosa mi fa? Mi fa soffrire”. “Come?”. “Cosa vuol dire come? Come mi fa soffrire?”. “Sì”. “Perché lo vuoi sapere?”. “Non lo so, mi fa sentire male la situazione”. “E dunque? Fai qualcosa per cambiarla?”. “No, ma…”. “E per giunta diventi morboso e vuoi dettagli su quello che mi fa…”. “No, no. Voglio aiutarti”. “Come?”. “Non lo so”. “Vabbè pensaci e poi me lo dici”. E dopo aver detto quest’ultima cosa, Nìnive si mise a girare intorno all’albero chiedendo alla bambina di scendere: prima con affetto e un tono supplichevole; poi arrabbiata, addirittura insultandola. Deciso a tentare di aiutarla in questa faccenda, mi avvicinai all’albero e mi misi a pensare. Fino a quando, alcuni minuti dopo, mi venne un’idea; Nìnive in quel momento stava insultando la bambina in una maniera orribile: le diceva che per colpa della sua testardaggine lei, Nìnive (diceva: io, Nìnive”), avrebbe sofferto molto quella notte, e che quel tipo di egoismo le ripugnava, perché a lei, la bambina, non costava niente scendere, una buona volta. E se la serva vecchia la abbracciava per calmarla, Ninive la respingeva e la buttava per terra.
La bambina continuava a stare sull’albero, ma su un ramo più alto e visibilmente spaventata e inquieta, si muoveva in modo tale da sembrare un… Me ne andai di corsa al castello e tornai con una rete e una gabbia con due polli vivi: dissi alle donne che si spostassero un po’ e appesi la rete al ramo dell’albero adiacente all’albero su cui stava la bambina. Nel frattempo, Nìnive insultava me, la bambina e la vecchia. Le chiesi di calmarsi e le misi la mano sulla spalla; Nìnive disse che io non le volevo bene, che se fosse stato per me lei avrebbe dovuto soffrire per tutta la vita con Anìbal, che già non sopportava più. “Nìnive, per favore, sto provando ad aiutarti”. “Con questo? Tu credi che Anìbal la smetterà mai? Fino a quando rimane in vita io soffrirò come se me lo meritassi”. “Che vuoi dire?” “Niente, che non ce la faccio più”. Turbato, tornai al mio piano. Gettai un po’ di mais proprio sotto a dove la rete doveva cadere, liberai i polli che andarono a mangiare il mais e corsi via. Ci posizionammo tutti e tre a una decina di metri e aspettammo. Io avevo in mano una corda che dovevo lasciar andare quando la bambina fosse scesa a prendere uno dei polli. E così fu, la intrappolammo, e anche se nel vederla agitarsi dentro la rete, muta, provai molta pena, la portai lo stesso al castello e la chiusi in una gabbia che stava accanto alla porta della cucina, sul retro del castello.
Capitolo 4
Erano già le tre. Era stato un lungo lavoro perché la bambina selvaggia ci aveva messo molto a scendere. Dopo aver mangiato una cosa al volo, che mi aveva preparato la serva vecchia, andai a camminare sul prato alcuni minuti e mi misi a sedere in un boschetto con la schiena appoggiata a un albero. Così, pensando anche a quello che mi aveva detto Nìnive su Anìbal, mi addormentai per terra. Quando mi svegliai aveva già fatto buio. Avevo sognato qualcosa di interessante ma non riuscivo a ricordarla bene; sapevo solo che non c’entrava niente: riguardava un uomo che cantava canzoni in un teatro per un pubblico enorme: le canzoni erano molto moderne, ma il pubblico era composto da vecchi.
Salii nella mia stanza, chiusi la porta e subito bussarono: era la serva vecchia, che veniva ad avvisarmi che Anìbal voleva cenare con me. Scesi nella sala da pranzo. Anìbal mi aspettava al tavolo da solo. C’era un pollo enorme e patate al forno. Anìbal era di ottimo umore; si alzò, mi abbracciò e mi invitò a sedermi accanto a lui. “Il pollo è per me”, mi disse; tu cosa vuoi?”. “Va bene pollo”. “No, il pollo è per me, e non c’è altro pollo”. “Vuoi degli spaghetti?”. “Okey”. Allora Anìbal gridò: “spaghetti!” e si mise a mangiare il pollo come un animale. Con la bocca piena si congratulò perché avevo catturato la bambina selvaggia e mi disse che lui stesso si sarebbe occupato della sua educazione. “Davvero?”, gli domandai. “Sì, ho letto abbastanza sull’argomento”. Poi mi raccontò che si era divertito molto in città, aveva incontrato molta gente conosciuta e mi aveva comprato una cosa, e mi diede un pacchetto. Con un pizzico di entusiasmo lo aprii e quando vidi ciò che era Anìbal iniziò a ridere. “È uno scherzo!”, mi disse, e mi tolse di mano il pacchetto e lo buttò per terra come se si trattasse di immondizia. Poi si alzò e se ne andò senza salutarmi. Rimasi da solo al tavolo aspettando gli spaghetti che non arrivarono mai.
Quando salii nella mia stanza, affamato e pensando ad Anìbal con odio, trovai un messaggio di Nìnive che mi diceva che mi aspettava quella notte nella sua stanza e mi dava indicazioni su come arrivare. Alla fine del messaggio diceva: “Per favore, te ne prego: vieni a divertirti con me”. Per quanto mi sforzassi, non riuscii a trovare la strada breve; ad ogni modo, arrivai molto più velocemente della volta prima. Bussai e Nìnive aprì la porta sorridendo: “Sei arrivato tardi di nuovo!”. “Ma molto meno tardi!”. “Sì, è vero… Ah…”. “Che c’è?”. “Niente, che mi piacerebbe davvero passare la notte con te ma da un momento all’altro può arrivare Anìbal”. “È che…”. “Cosa?”. “Non so, penso a te, e a quello che ti fa lui e…. “Non dire niente…”. “È che…”. E lì Nìnive mi interruppe e disse: “Bisognerebbe ucciderlo”. “Cosa?”. “Bisognerebbe uccidere Anìbal”. “Dici sul serio?”, le domandai con una faccia che con ogni probabilità era tremenda e con una voce da idiota. “No, ovviamente no”. “Ah”. Ci fu un attimo di silenzio e Nìnive disse: “Sì, dico davvero”. “Che?”. “Che lo dico sul serio”. Ci fu un altro momento di silenzio, stavolta molto brutto, e Nìnive disse: “No, non sono seria. Non devi prendermi sul serio”. “Ma…”. “Anche se forse sì”. “Che vuoi dire?”. “Dico che quello che vuole ucciderlo sei tu, ma non ti decidi”. “Io? No … non è una bugia…”. “No, è la verità: tu vuoi che lui muoia e che ci lasci stare soli, che non mi faccia più quello che mi fa, che non ti faccia fare quei lavori, ecc. Prima che arrivassi tu, andava tutto bene qui e io non soffrivo tanto per quello che mi faceva Anìbal. Ti direi addirittura che me la passavo quasi bene, perché non mi piaceva, però mi faceva passare il tempo. Adesso è cambiato tutto, e questo cambiamento è un effetto della tua comparsa”. “E per questo dovrei ucciderlo?”. “Sì, chiaro. E ora che realmente pensi a questa possibilità, ti guardo e vedo in te un uomo, e, se lo facessi, saresti ancora più uomo e nessuno potrebbe sconfiggerti. Anìbal è un ciccione, pelato e basso. Non vale niente. Ma tu sei troppo buono e ciò che ti dico è per aiutarti a prendere la strada breve, che implica un po’ di crudeltà: in questo caso, un crimine, ma un crimine giusto che ci porterà tutti, te, me e quanti abbiamo intorno, ad un livello di giustizia più pieno”. “…”. “Adesso vai, che Anìbal, quel mostro sadico e schiavista, può arrivare da un momento all’altro”. Mi spinse e me ne andai di corsa. Arrivai nella mia stanza e mi misi a letto. Rimasi così per vari minuti, pensando non solo a ciò che mi aveva detto Nìnive ma anche a come lo aveva detto: quelle parole, quelle frasi… Poi mi alzai, afferrai il salamino e me lo mangiai a grandi morsi senza togliergli la pelle. Quindi vidi un messaggio. Era di Anìbal. Mi commissionava un lavoro “un po’ più duro di quelli precedenti”, e mi spiegava che c’erano stivali, guanti e casco perché non mi succedesse “nulla di male”. Trovai un bastone e mi riproposi di andare nella stanza di Nìnive ad ammazzare di legnate Anìbal ma quando aprii la porta e imboccai il corridoio iniziai a tremare. Mi misi a sedere per terra e rimasi così abbastanza tempo con il bastone in mano. Poi mi alzai, entrai nella mia stanza, mollai il bastone, afferrai il messaggio di Anìbal, andai a prendere il casco, i guanti e gli stivali e rimasi tutta la notte in un capannone enorme a fare un lavoro ripugnante ed umiliante più di quanto l’immaginazione di chiunque potrebbe aspettarsi; qualcosa di totalmente indescrivibile, impossibile da capire finché non si vede ed impensabile, se non si tocca con mano. Appena tornai al castello mi feci la doccia per levami lo sporco che avevo appiccicato al corpo; anche se lo fregai con una spugna, le mani rimasero nere; in più, un odore schifoso di pesce marcio e di cadavere, mi era rimasto impregnato nei capelli. Era l’odore dell’umiliazione e della vita oscurata. Sentii di essere lo schiavo più schiavizzato al mondo. Andai a letto e sognai, anche prima si addormentarmi, le varianti della morte di Anìbal.
Capitolo 5
Il giorno dopo mi svegliai, vidi la colazione sul comodino e mi venne da vomitare. Avvicinai la mano alla teiera e sentii che era calda. Mi alzai, aprii la finestra e vidi la bambina selvaggia: una corda le partiva dal collo e arrivava fino a un paletto; la corda aveva vari metri e questo le permetteva di correre un po’. Tuttavia, quando la tirava molto, la corda la strangolava. Mi servii la colazione pensando a quello che avevo fatto la notte prima. Mangiai un po’ di pane e formaggio e presi un sorso di tè. Poi tornai sulla finestra. Al limite tra il cielo e il mare, la Marina addestrava i suoi marinai a sparare con il cannone. Era molto presto. La giornata non era calda né fredda e il porto era in piena attività. Arrivavano le barche con gabbie piccole, da venti o trenta schiavi, e quasi sempre succedeva la stessa cosa: un impiegato del porto entrava nella gabbia, tirava fuori i malati e gli svenuti e se li portava via con lui; poi le vendite si portavano a termine rapidamente; certe volte, un uomo comprava una gabbia intera e allora, dopo aver pagato l’impiegato, faceva uscire i cinque schiavi più forti e faceva sistemare loro la gabbia su di una piattaforma a rotelle; poi, questi cinque schiavi trascinavano la piattaforma e la spostavano lentamente lungo una strada verde che si perdeva nella montagna o lungo un’altra strada, che probabilmente conduceva in città. Sentii un rumore sotto la finestra. Era Anìbal, che montava sulla sua auto, con la capote aperta, diretto al porto. Vidi che diventava sempre più piccolo, per un momento sparì e poi riapparve, minuscolo, nel porto: il suo cappello verde e la forma così strana della macchina permettevano di identificarlo. Anìbal parcheggiò, scese e si avvicinò a una gabbia di una decina di schiavi. Guardò un po’ e se ne andò verso un lato dove io non riuscivo a vederlo. Subito sei schiavi uscirono dalla gabbia e la sistemarono sopra una piattaforma. Aveva intenzione di comprare altri schiavi? L’idea di convivere con quei dieci schiavi mi turbò; allo stesso tempo, pensai che mi avrebbero potuto aiutare nei miei compiti e che questa era la cosa buona. Ma no: la gabbia se ne andò e Anìbal riapparve a fianco dell’altra gabbia mentre indicava uno schiavo. Il portuale lo fece uscire e Anìbal lo esaminò. Poi lo persi finché riapparve lungo il cammino accompagnato dallo schiavo. Sentii delle voci di donne: Nìnive, la serva vecchia e l’altra serva giovane, che avevo visto a malapena e che ora mi ero accorto essere molto bella, si avvicinavano al portone ad aspettarli.
Anch’io scesi, salutai Nìnive con un bacio sulla guancia e dissi “ciao” alle altre serve. Anìbal e lo schiavo ancora non arrivavano. Guardai la giovane serva e le dissi “non ti avevo mai visto”. Lei, con una voce molto dolce e gradevole, mi rispose che ci eravamo visti ma che lei di solito stava nella biblioteca e allora la conversazione s’interruppe perché Nìnive mi prese per il braccio e mi disse che era ansiosa di vedere il nuovo schiavo. “Perché?”, le domandai. “Non lo so, vediamo”. “Vediamo cosa?”. “Siamo tutte impazienti”, mi disse la serva giovane. Allora sentimmo il rombo del motore e comparve Anìbal con lo schiavo. Era un tipo molto brutto, bello grosso e forte. Anìbal gli aprì la porta e ce lo presentò: si chiamava Hugo. Hugo disse “ciao” con una voce grave e nervosa. Noi ci presentammo e dopo la serva giovane portò Hugo in camera sua. Anìbal mi domandò cosa mi sembrasse dello schiavo. “Non so, è un po’ bruttino”. “Bruttino?”. “Sì ma non importa”, gli dissi. “E a te cosa ti sembra?”, chiese Anìbal a Nìnive. “A me non sembra brutto; anzi, sembra molto forte e virile”, gli rispose. Anìbal se ne andò ridendo come un matto.
“Che vuol dire ‘sta cosa?”, domandai a Nìnive. “Cosa?”. “Il fatto di essere forte e virile…”. “Niente, un’opinione.” Ci fu una pausa e dissi; “Ho pensato a ciò di cui parlavamo ieri”. “Ieri?”. “Sì, quello che mi dicevi…”. “Ah”, disse lei, a disagio e simulando disinteresse. “Sì, lo farò presto”. Allora Nìnive sorrise e mi disse: “Magari non è il caso che tu lo faccia, fidati, non lo fare”. “No, lo farò”. “Beh, bene allora”, disse, come se non gliene importasse, e se ne andò.
Dopodiché andai a fare una passeggiata; quando tornai nella mia stanza trovai Hugo seduto sul mio letto che guardava il libro delle posizioni omosessuali. “Cosa ci fai qui? Dormirai in questa stanza?”. “No, no. Volevo parlarti, Anìbal mi ha detto che mi dovevi spiegare quello che si fa qui.” “Beh…”. “Interessante questo libro”, mi disse. “Sì? Non è mio”. “Ah, no?”. “No, era qui”. “Comunque, è bello. Me lo presti?”. “Sì prendilo”. “Io ne ho un altro nella mia stanza, te lo posso prestare”. “Di cosa parla?”. “Non lo so, gli ho dato un’occhiata rapida e non mi interessava”. “Va bene, dai, lo guardo”. “Grazie”, mi disse. “No, di niente”. Ci fu un momento di silenzio e poi Hugo mi disse: “Carina la serva”. “Quale?”. “Non so come si chiama, ha un nome strano”. “Ok ma quale? Quella che ti ha portato in camera tua?”. “Sì, certo, l’altra è brutta”. “Quale è brutta? La vecchia?”. Rise. “Vabbè, la vecchia è vecchia. L’altra è brutta. Quella bella è quella che mi ha accompagnato. Tu hai qualche tresca con lei?”. “No, no”. “Ah, fantastico perché già abbiamo fatto quattro salti sul materasso, non so se ti sei accorto…”. “No, è lontano dalla mia stanza”. “E tu? Ti fai qualcuna?”. “Io mi sono fatta amica quella che dici che è brutta, Nìnive”. “Ah, scusa”. “No, non c’è problema. La tua non l’avevo mai vista. Mi sa che mi piace di più Nìnive”. “Davvero?”. “Sì”. “Vabbè, ognuno ha i suoi gusti”. “Sì, chiaro”. “Ora che lo dici, in effetti, non è tanto brutta quella Nìnive”. “A me pare bella”. “Sì, può essere…”. “E ancora non…?”. “No, no, qualcosa c’è, ma lei è mezza isterica…”. “Ah, certo. Lì devi essere deciso tu…”. “Può essere… Vabbè, ti spiego cosa c’è da fare qui?”. “Dai, va bene”. Allora gli raccontai dei lavori che avevo dovuto fare e vidi come gli passava il buon umore. Quando finii, mi disse: “Non ho mai fatto una cosa del genere né ho mai sentito di una cosa del genere…È orribile”. “Sì davvero orribile e umiliante” e a riprova gli avvicinai le mie mani perché le annusasse. “Puahh”, disse, e contenne un conato. Poi se ne andò ma tornò subito a darmi il suo libro, mi spiegò dov’era la sua stanza e mi domandò se nel pomeriggio volevo andare a fare una passeggiata con lui nel bosco. Dissi di sì e ci mettemmo d’accordo per trovarci alle cinque davanti al portone del castello.
Mi accingevo a guardare il libro di Hugo quando arrivò la serva vecchia e mi recapitò un messaggio di Anìbal in cui diceva che non aveva tempo per educare la bambina selvaggia e che la lasciava a carico mio, e sperava di vedere presto dei risultati. Allora scesi, slegai la bambina e la portai su, nella mia stanza.
La prima cosa che notai fu che sotto la sporcizia, che la faceva sembrare di pelle scura, era molto bianca, motivo per cui la portai in bagno. Era molto docile e lasciò che la pulissi con uno spazzolino. La asciugai e le misi una mia camicia che le stava come un vestito. Tornammo in stanza e la feci sedere sul comodino. Aveva le dita delle mani molto grosse, soprattutto i pollici, forse perché li aveva usati molto per arrampicarsi sugli alberi. I suoi occhi erano piccoli e chiari, verdastri, i suoi capelli di un castano scuro. Era una bella bambina di dieci o undici anni. Non parlava né faceva rumore e quasi non si muoveva. Sembrava una bambola. Comunque, quando tirai fuori il salamino e glielo offrii, me lo strappò dalle mani con grande rapidità e se lo mangiò a grandi morsi. A quel punto mi resi conto che anch’io avevo fame, una fame come quella che può avere un… Allora le dissi, facendo una faccia dolce e gesticolando molto con le mani, che andavo a cercare del cibo e che mi aspettasse lì. Sembrava intendere. Scesi, andai in sala da pranzo e mi infilai in una porta che sembrava della cucina. Era effettivamente la cucina, e non c’era nessuno. Dal frigo, che era piena di cibo di ogni tipo, presi alcuni sandwich di prosciutto crudo e formaggio e una bottiglia di succo e salii nella mia stanza. La bambina non c’era più; mi affacciai alla finestra e la vidi correre in direzione del bosco. Correva in un modo particolare: un po’ incurvata, metteva un piede davanti all’altro molto rapidamente; sembrava scivolare lungo il prato. Fui sul punto di uscire per andare a cercarla, ma mi sembrava che non avesse senso. “Cosa potevo insegnarle? Oltretutto, io ero più preoccupato di dover uccidere Anìbal. La situazione mi rendeva un po’ nervoso: avevo già ammazzato uno schiavo una volta, ma era stata legittima difesa. Ad ogni modo, sentivo che non c’era nessun pericolo, visto che nessuno sarebbe accorso a difendere Anìbal: né Hugo, né le serve, né Nìnive. L’unico che poteva difenderlo ero io. E fu così che notai la stranezza del fatto che non ci fosse nessun guardiano nel castello.
Capitolo 6
Mi mangiai i sandwich mentre davo un’occhiata al libro. Era un libro abbastanza noioso sulla morte e i rituali funebri. Poi scesi e incontrai Hugo, che mi disse: “È bello il libro”. “Che libro?”, gli domandai. “Il tuo”. “Ah, ma non è mio, era lì appoggiato”. Lui mi guardò stranito: “Che succede? Ti vergogni?”. “No, per niente”. “Ah, perché a me piace”. “Cosa vuoi dire?”. Non mi rispose. Camminammo un po’ e, quando entrammo nel bosco, Hugo mi sbatté contro un albero ed iniziò a baciarmi sul collo. Tentando di scansarlo mi resi conto che era molto più forte di me. “Smettila!”, gli gridai. “Okeey, tranquillo”, disse mentre allentava la presa che esercitava su di me. “Non ci provare mai più!”, gli gridai di nuovo. “A fare che?”. “Le posizioni omosessuali!”. “Va bene, OK, pensavo che potevamo divertirci”. “Io non mi diverto”. “Perfetto, va bene. In realtà, ti ho detto, mi piacciono le donne. È solo che quel libro…”. “Cosa?”. “Non lo so, fa venir voglia di provare tutto”. “A me vedendolo non ne è venuta voglia”. “Va beh, sarò io, non lo so, non importa”. “Va bene però non farlo mai più”. “Perfetto, ho capito”. Ci fu silenzio e poi parlo Hugo. “Mi ha detto Nìnive che pensavi di uccidere Anìbal”. “Cosa?!” gli urlai. “Che? Non è vero?”. Rimasi in silenzio. “Guarda”, mi disse, “se hai bisogno di aiuto dimmelo. Io non voglio fare i lavori che mi hai raccontato e che lui ti ha fatto fare; sono capace di fare quasi qualsiasi lavoro, ma ho un limite e quello veramente mi fa schifo. E, in più, penso che sia il momento di iniziare a rompere le catene della schiavitù”. “Che catene?”. “Penso che potremmo decidere che fare della nostra vita”. “Può essere…”. “Ma allora lo vuoi uccidere?”. “Credo di sì”. “Nìnive è molto entusiasta all’idea, mi ha raccontato ogni dettaglio di quello che le fa Anìbal…è orribile…”. “Ti ha raccontato quello che le fa?”. “Sì, perché? Tu non lo sai?”. “No, sì, ovvio che lo so, ma pensavo si vergognasse a raccontarlo”. “Sì, di sicuro. Ma siamo stati a parlare per un bel po’”. “Ah, però…”. “Ninive mi ha detto che se tu non pensavi di ucciderlo allora potevo farlo io”. “Perfetto, per me ancora meglio, non è divertente uccidere la gente”. Camminammo un po’ e tornammo al castello”. Sul portone c’era Nìnive, che salutò ciascuno dei due con un bacio. “Dunque?” domandò. “Lo farò io”, le dissi, con una faccia arrabbiata. “Perfetto. Quando? Oggi?”, mi disse con un gesto molto femminile e difficile da descrivere, e io mi spaventai e le dissi, fingendomi stupito: “Oggi?”. “Sì, qual è il problema?”. “E va bene, oggi”, le risposi, e salii nella mia stanza, molto eccitato, rabbioso e pieno d’ ansia. Mi buttai un po’ sul letto; poi mi alzai e decisi di andare in camera di Nìnive per domandarle perché avesse raccontato a Hugo quello che le faceva Anìbal e perché non volesse raccontarlo a me. Arrivai e quando stavo per bussare alla porta, sentii la voce di Hugo. Fui sul punto di andarmene e, invece, bussai alla porta e Nìnive mi aprì. “Entra, stavamo giusto parlando un po’ io e Hugo”. “Sì?”. “Sì”. “Ciao”, mi disse Hugo, “stavo giusto per andarmene. Ciao, Nini”. “Ciao Hughi”. Quando Hugo se ne andò domandai a Nìnive cos’era quel fatto di “Hughi” e “Nini”, perché aveva raccontato le cose a lui e a me no, se erano amanti o cosa, ecc. Lei rise e mi disse di non essere sciocco: “A me interessi solo tu. Ma con Hugo si riesce a parlare molto bene: lui, tutto grosso e rozzo com’è, sa ascoltare con molta sensibilità”. “E io no?”, “Beh, tu sei più contorto, ogni idea ti porta un’altra e poi a un’altra e a un’altra ancora, ecc. Hugo è uno con dei pensieri semplici, lineari…”. “Ah”. Allora lei mi prese le mani, mi guardò e aggiunse: “Oltretutto non voglio che l’immagine che hai di me sia sporcata dalle immagini delle cose orribili che mi fa Anìbal. E mi diede un bacio in bocca e mi chiese di uccidere Anìbal, che me lo chiedeva per favore. Le dissi di sì, e me ne andai via allegro.
Capitolo 7
Nella mia stanza spesi un po’ di tempo a pensare a come avrei ucciso Anìbal, e arrivai alla convinzione che la cosa migliore sarebbe stata usare il coltello del salamino. Era un coltello molto bello, abbastanza grande e affilato, con un manico di legno e una forma interessante, liscia e animale. Mentre pensavo alla morte di Anìbal, distrattamente, mi misi a scrivere il mio nome con il coltello, sopra il comodino. Quando lo vidi, mi accorsi che questa nuova incisione sul comodino si era sovrapposta alla precedente, di modo che adesso risultava impossibile leggere il mio nome. “Meglio” dissi a voce alta, e mi alzai in piedi, feci dei balzi nell’aria agitando il coltello e mi affacciai alla finestra. Era già notte. Non sentivo paura né nulla di simile: la morte di Anìbal, per me, era un dato di fatto. E stavo per andarlo a cercare quando all’improvviso si aprì la porta principale del castello e ne uscì Anìbal, che guardò in su e mi vide con il coltello in mano. “Cosa fai lì con un coltello?” mi gridò. “Mangio del salamino”, gli risposi senza agitarmi. “Attento che se ti cade puoi far male a qualcuno”. “Sì, scusa”, gli risposi e lo lanciai sul letto. Lui parlò nuovamente: “Io aspetto mio figlio che in teoria deve arrivare a breve”. “Tuo figlio! Viene oggi?”, gli domandai tentando di mostrarmi tranquillo. “Non so, credo di sì, ma forse anche no”. Mi ritirai nella stanza e mi misi a sedere sul letto. Uccidere Anìbal in presenza del figlio sarebbe stato più difficile, non volevo uccidere tutti e due; allo stesso tempo, però, avevo promesso a Nìnive che l’avrei fatto. D’altro canto, se uccidevo Anìbal in quel momento e poi arrivava il figlio, tutto avrebbe potuto complicarsi. Di colpo udii il rumore di motori. Mi affacciai alla finestra e vidi un’auto e delle moto che si fermavano. Dall’auto scese un uomo, senza dubbio il figlio di Anìbal, accompagnato da una donna bellissima e tre bambini di meno di cinque anni. Anìbal strillò d’ allegria e i ragazzi gli si arrampicarono addosso; “nonno, nonno”, gli gridavano; erano una bambina e due bambini. Dopodiché, tutti abbracciati, entrarono nel castello. Quelli con le moto rimasero fuori a fumare sigarette e a parlare tra di loro; erano cinque e sembravano guardiani.
Tutto ciò mi scosse: l’idea di famiglia, i bambini, i guardiani. Uccidere Anìbal, che prima era così semplice, di colpo divenne impensabile. E allora sentii dei gridolini e vidi in lontananza Hugo, che tornava dal bosco e che trascinava, come bene immaginavo, la bambina selvaggia per i capelli. Quando arrivò alla porta del castello mi guardò e alzò un braccio festeggiando la sua vittoria. La bambina, muta, si scuoteva tutta. “Dove la metto?”, mi domandò. “Non lo so… sul retro del castello, a fianco alla porta della cucina, c’è una gabbia, la puoi mettere lì”. Allora lo vidi scomparire e mi resi conto che avrei preferito che la bambina non apparisse più, perché mi faceva pena e anche perché mi dava fastidio doverla educare, visto che sentivo di non poterle insegnare nulla.
Uscii dal castello. Sulla porta c’erano i motociclisti. Li salutai con la mano e loro mi salutarono allo stesso modo. “Come va?”, dissi. “Siamo qui a prenderci cura del padrone”, mi rispose uno. “Bene, bene”, dissi, e feci il giro del castello. A fianco alla porta della cucina, nella gabbia, la bambina si era addormentata. Hugo l’aveva rinchiusa e, per di più, le aveva legato una gamba ad una sbarra. La gamba era gonfia per la pressione della corda. Mi sembrò troppo, di modo che la slegai e quando lo feci, senza muoversi aprì un pochino gli occhi e mi guardò riconoscente; allora, per qualche motivo, levai la spranga alla porta della gabbia: se voleva, poteva scappare. Entrai alla cucina per cercare qualcosa da mangiare e incontrai Nìnive, la serva vecchia, la serva giovane, e Hugo. “Cosa fate qui?”, domandai loro, e Nìnive mi disse “shh”. Stavano appiccicati alla porta, per ascoltare ciò di cui Anìbal e suo figlio parlavano nella stanza da pranzo. Il figlio gli diceva che avrebbe dovuto avere delle guardie del corpo, che non era sicuro rimanere solo, senza protezione, così lontano da tutte le altre case, e Anìbal rispondeva che non gli piacevano le guardie, che lui aveva un ottimo rapporto con la gente del suo castello e che tutti lo avrebbero protetto in caso di necessità. In cucina tutti risero a voce bassa; Hugo disse: “Sì, chiaro, solo che poi ti uccidiamo”, e tutti si sganasciarono di nuovo. Solo a me non veniva da ridere, mi creava angoscia, invece. “Lo ucciderai oggi?”, mi domandò la serva giovane mentre accarezzava Hugo sotto i pantaloni. “Cosa?”, risposi. “Non dovevi ucciderlo?”, mi domandò Nìnive, come seccata. “Sì, ma oggi non si può”. “Perché?”, mi domandò Hugo senza dar segni di preoccupazione alcuna. “Non so, sta con tutta la famiglia”, gli dissi. “E questo che c’entra?”, mi domandò Nìnive. “Domani lo ammazzo”, le dissi. Ci fu silenzio e allora sentimmo il figlio di Anìbal che diceva: “La schiavitù è umiliante. Non dobbiamo tollerarla più”. E Anìbal gli rispondeva: “È intollerabile, sono d’accordo. Ma tu sai che io appoggio le vie legali”. E il figlio, un po’ esaltato gli rispondeva. “No! Non ci sono vie legali! La schiavitù deve finire oggi stesso!”. “Cosa dicono? Vogliono abolire la schiavitù?”, domandai, sorpreso, e tutti risero. “Parlano di schiavitù metaforicamente. Loro si considerano schiavi del potere centrale”, mi spiegò Nìnive. “Potere centrale?”, tornai a domandare. “Sì”, mi rispose la serva giovane mentre baciava il collo a Hugo, “il potere centrale che si assume il compito di determinare le leggi, come per esempio le tasse sui redditi, ecc.”. I bambini si misero a strillare e Anìbal gridò “a pranzo!” e la serva vecchia entrò nella sala da pranzo con una pentola. Allora uscimmo dalla porta della cucina e Hugo, vedendo che la bambina selvaggia era scappata, iniziò a dire “no, no, no” e si buttò per terra a piangere. “Che succede?” gli domandai, e la serva giovane mi rispose: “Che Anìbal ha detto a Hugo che gli avrebbe distrutto la faccia a frustate se non catturava la bambina”. “Davvero?”, disse Nìnive. “Sì”, rispose Hugo piangendo, e mi guardò: “Tu lo hai visto che l’avevo presa”. “Sì, sì”, gli risposi; “ma non preoccuparti che la riprendiamo”. “Adesso? Di notte? È molto pericoloso”, disse la serva giovane. “Perché?”, domandai. “Perché il bosco è pieno di animali selvaggi”, mi rispose Ninive. “Animali che si alimentano di persone”, aggiunse la serva vecchia. E Hugo concluse. “Sono condannato”. Allora Nìnive mi disse: “Devi ucciderlo oggi: se non per me, fallo almeno per Hugo”. Io allora dissi a Hugo: “Hugo, potremmo ucciderlo noi due”. Ma siccome Hugo piangeva così tanto che non riusciva a rispondermi, la serva giovane mi disse, mentre gli accarezzava l’orecchio sinistro con un dito:” Hugo è depresso, non potrà fare niente oggi, solo dormire e piangere. Menomale che ci sono io qui per consolarlo”. E Nìnive mi disse. “oltretutto hai detto che lo avresti fatto e adesso tutti ci siamo fatti quell’idea.” Volevo domandare perché tutti dovevano dipendere da me ma non lo feci, e rimasi fermo a fianco della gabbia vuota a guardare come tutti se ne andassero. Da lontano sentii dire a Hugo: “Questa vita miserabile…”.
Capitolo 8
Feci il giro del castello. Davanti al portone principale, i motociclisti avevano sistemato un tavolino portatile e giocavano a carte. “Tutto bene?”, domandai. Non mi risposero. Stavo per entrare nel castello ma, invece di farlo, me ne andai in direzione del bosco: volevo allontanarmi un po’ da quella situazione incasinata. Feci vari giri, abbastanza alterato, pensavo ad Anìbal, a Hugo, a Nìnive, alla bambina… Sapevo di non poter uccidere Anìbal quella notte. Il fatto della visita del figlio poteva essere una scusa ma, ad ogni modo, ciò che faceva testo era che non mi risolvessi a farlo. Dovevo accettare che Nìnive mi vedesse come un vigliacco. Anche Hugo poi mi faceva un po’ pena, ma perché non lo uccideva lui? E così, avvitandomi sui miei pensieri, di lì a poco e senza rendermene conto, mi andai a cacciare nella parte più profonda, densa e oscura del bosco, e mi persi. Tuttavia, scoprii di essermi perso solo quando sentii un verso cavernoso; siccome il verso si sentiva sempre più vicino, mi spaventai. Istintivamente, mi arrampicai su un albero e, da lassù, vidi arrivare un animale simile a un orso. Rimasi fermo. L’animale fece un paio di giri annusando e si rannicchiò ai piedi del mio albero. Io avevo trovato un buco tra due rami che risultava molto comodo e, nonostante la paura che avevo, sempre tentando di non muovermi, mi addormentai. Non so quanto tempo dopo mi svegliai di soprassalto, forse perché mi aveva punto un insetto. Il mio movimento brusco svegliò l’animale che mi vide e si mise a grugnire. Nonostante il buio riuscivo a vedere che era orribile, ancor più orribile di un orso, almeno più orribile dell’immagine che avevo io di un orso, perché non ne avevo mai visto uno così da vicino. Tentai di arrampicarmi più in alto ma non ci riuscivo e lui, vedendomi che tentavo di scappare, iniziò o a dar colpi all’albero, che era grosso, ma con tanta forza che pensavo l’avrebbe sradicato. Allora, invece di arrampicarmi, mi afferrai su un ramo e iniziai a urlare all’orso che non mi facesse del male, ma ciò, per qualche motivo, lo alterò di più, e la sua alterazione alterò me, e mi fece gridare più forte. La situazione era davvero drammatica, e in quel momento, tra scossoni, grida e bramiti, iniziai a pensare: non volevo uccidere Anìbal e adesso muoio io. Intuii anche una cosa davvero ovvia che, però, per me, risultò rivelatrice, perché mi sentivo come un uomo a cui… Frattanto l’orso continuava a dare colpi al tronco, che era già un po’ inclinato, con il corpo, con le zampe e con la testa, e io avevo smesso di gridare: mi aggrappavo solamente e facevo da contrappeso per ritardare a caduta finale. E allora, proprio quando stavo pensando alla possibilità di lottare corpo a corpo con l’orso, cioè di misurare le nostre forze nonostante le mie possibilità zero di batterlo, sentimmo, sia l’orso che io, un grido molto acuto. E, quando entrambi guardammo, vedemmo la stessa cosa: a quattro metri, la bambina selvaggia lo minacciava con una spranga. Sono sicuro che se le condizioni generali fossero state altre, sia l’orso che io, ci saremmo messi a ridere e tutto sarebbe finito nel miglior modo possibile. Invece, ciò che successe fu che l’orso si fermò e iniziò a grugnire alla bambina, che comunque non solo non si mosse di un centimetro ma iniziò a brandire la sua arma in un modo tale che si resero visibili dei fili che uscivano dalla punta della spranga e che avevano legate delle pietre alle estremità. Cioè, l’arma della bambina era la combinazione di una spranga e di un lazo da bestiame multiplo. Questa cosa eccitò l’orso che si alzò in piedi sulle zampe dietro e iniziò a emettere suoni terrificanti e dunque la bambina fece una corsetta rapidissima in avanti, come scivolando, manovrò la sua spranga con precisione e tornò indietro con la stessa rapidità proprio mentre si udiva un rumore di vetri rotti e dalla bocca dell’orso iniziavano a cadere pezzi di denti insanguinati. L’orso cadde in ginocchio, ululando, poi si alzò e, quando vide la bambina che stava facendo ruotare la spranga, fece un salto verso di lei ma, la bambina, invece di correre via, lanciò la sua arma contro l’orso: i fili lo intrappolarono mentre era per aria e lo fecero cadere pesantemente. Allora la bambina si arrampicò su di lui e gli infilzò il lato posteriore del palo, che era affilato, nella gola. Si sentì un glu-glu del sangue e l’orso morì. Spaventato e sorpreso, non ebbi il coraggio di scendere fino a che la bambina non mi fece dei gesti con le mani, che mi fecero capire che non aveva l’intenzione di uccidere anche me ma, al contrario, mi aveva salvato la vita, probabilmente come ricompensa per averle lasciato aperta la porta della gabbia.
Non appena scesi dall’albero, la bambina mi diede delle radici che teneva in una specie di borsello di cuoio appeso a una corda legata alla cintura. A parte questa corda e il borsello, era nuda. Mi mangiai le radici senza pensarci e quando la bambina iniziò ad aprire, con un coltellino di legno, la pancia dell’orso, i ero già in preda a delle dolci allucinazioni. Ci mangiammo l’orso, crudo, in un rituale che consisteva nel girare attorno e correre un po’ ogni volta che estraevamo un organo nuovo; poi ci addormentammo in quello stesso punto. Mi svegliai con la luce del sole, ancora allucinato e ricoperto di sangue rappreso. La bambina non c’era più, ma riapparve subito e mi portò a un ruscelletto vicino. Prima di entrare in acqua, ci mangiammo delle altre radici, e credo che in quel momento il mio cervello perse il senno, la memoria e l’ordine.
Rimasi diversi giorni nel bosco con la bambina, tempo in cui imparai a riconoscere i vari tipi di radici per i loro diversi effetti, le forme e i modi di consumarle; imparai a cacciare animali grandi e piccoli e a mangiarli in modi diversi, sempre crudi; a dialogare con gli insetti e le pianta ed a trovare sorgenti d’acqua. Sempre in silenzio, perché la bambina non parlava e non sapeva ridere. Mi insegnò anche a scivolare come faceva lei: un piede dietro l’altro, quasi senza staccarli da terra, molto rapidamente. Era il modo migliore di avvicinarsi agli animali che uno voleva mangiare. E un giorno ebbi le allucinazioni e mi persi. Rimasi solo per varie ore, a cercare la bambina inutilmente e a mangiare diverse radici che mi facevano andar fuori di testa, fino a che, forse senza averlo deciso, arrivai su un monte senza alberi, e da quel monte, riuscii a vedere il castello illuminato dal sole, e capii o arrivai a credere che lei si fosse nascosta da me perché voleva che tornassi al mio posto, che era il castello. E allora, molto eccitato, mangiai una radice sbagliata, o in una dose molto elevata, e iniziai a correre senza una direzione precisa con la testa piena di immagini di facce di Anìbal e Nìnive e dei lavori che Anìbal mi aveva fatto fare, e anche se la direzione era incerta, all’improvviso mi ritrovai a circa duecento metri dalla porta del castello e vidi Anìbal che da lontano mi faceva dei segnali e gridava con una frusta in mano. Non so come ma all’improvviso sentì una frustata sulla spalla e notai che ero a due metri da Anìbal. Vedendo la ferita, che mi sembrò enorme, gli saltai addosso con una furia animale e ci azzuffammo per un po’ fino a che riuscii in qualche modo a infilzargli il manico della sua frusta nell’occhio sinistro; questo lo fece gridare e lo fiaccò un po’, e allora approfittai e rapidamente gli tirai fuori il manico dall’occhio e glielo premetti con due mani contro il collo, fino a che smise di muoversi, morto. Il rumore delle grida di Anìbal aveva attratto Nìnive, Hugo e la giovane serva. Quando mi fermai, sporco, selvaggio e pieno di macchie di sangue, Hugo e la serva giovane indietreggiarono; Ninive invece si avvicinò a me, mi baciò in bocca e mi disse, con un tono vittorioso: “Adesso sei tu il re!”. Io le risposi che ero stanchissimo e lei allora mi portò nella mia stanza e mi lasciò lì a dormire nel mio letto.
Capitolo 9
Quando mi svegliai, appena il giorno dopo, la prima cosa che vidi fu la colazione sul comodino. Avvicinai la mano alla teiera e sentii che era calda. Mi alzai ed aprii la finestra. La giornata era bella, né calda né fredda, il porto era in piena attività. In lontananza, sul limite tra cielo e mare, la Marina addestrava i suoi marinai a sparare con il cannone. Il modo in cui alcuni boati risuonavano nella mia testa mi fece ricordare che ero ancora sotto effetto di una qualche radice. Ma l’effetto stava svanendo. Mi sentivo bene e non mi ricordavo cosa avessi fatto fino a che non vidi le mie mani; allora uscii di corsa per farmi la doccia.
Una volta pulito, mi misi a sorbire il tè, visto che si era intiepidito, e a mangiare dei panini, che si erano induriti un po’. In quel momento, tutti i giorni prima nel bosco e la morte di Anìbal mi sembrarono un sogno, e proprio quando stavo iniziando a sospettare che davvero fossero state un sogno, successero due cose allo stesso tempo: la prima fu che vidi il segno della frusta nel braccio e mi accorsi che era una ferita molto superficiale; la seconda fu che Nìnive aprì la porta, gridò “il nostro re!” e corse da me, ad abbracciarmi. “Cos’ è ‘sta cosa del re?”, le domandai. “Beh, adesso che Anìbal è morto e sepolto…”. “Lo hanno già seppellito?”. “Sì, credo di sì. Per qualche strano motivo questa mattina era già gonfio di vermi. Hugo lo ha seppellito nel bosco”. “Nel bosco?”. “Sì, ha detto così, perché?”. “No, niente”. Rimanemmo in silenzio e allora le domandai. “Cos’è questa storia del re?”. “Ah, non so, è divertente no?”. “Sì…” ci fu un altro attimo di silenzio e poi Nìnive con una voce sciocca, domandò. “E io allora sarei la regina?”. Lì mi feci coraggio e dissi: “Chiaro”. “Davvero?”, insistette. “Sì, sì, chiaro”, le dissi di nuovo, un po’ più espansivo. Allora lei, molto contenta, mi saltò addosso e ci buttammo sul letto per dar sfogo ai nostri istinti più animali.
Poi Nìnive mi domandò cos’avevo fatto in quei giorni; io le risposi, facendo un po’ il misterioso, che ero stato a contatto con la natura, a radunare le forze per quello che avrei dovuto fare. Quando scendemmo all’entrata del castello, la serva vecchia, quella giovane e Hugo erano lì, davanti a un tavolo pieno di cibo delizioso. “Lo abbiamo preparato per te”, mi disse la serva giovane, e allora guardai Hugo e mi colse l’orrore: aveva la faccia solcata dalle frustate. “No!”, dissi. “Sì, è ciò che mi aveva promesso Anìbal”. “Comunque non m’interessa più, perché mi sono vendicato: prima di seppellirlo ho fatto a pezzi il suo corpo in modo tale che…”. “Ah, vabbè”, gli risposi. Allora la serva giovane mi raccontò che da quando me n’ero andato Anìbal era andato fuori di testa con la frusta, e si alzò la gonna e mi mostrò il sedere e le gambe, che erano ferite però non gravemente. “Anche a me”, disse la serva vecchia, e mi mostrò le sue braccia e le sue spalle, anch’esse solcate dalla frusta. “E a te non ha fatto nulla?”, domandai a Nìnive, perché non avevo visto ferite sul suo corpo. “Sì, a me ha fatto la stessa cosa di sempre, ma con più crudeltà”. “Oh no!”, esclamarono in coro, un po’ teatralmente, Hugo, la serva giovane e la serva vecchia. Volevo domandare a Nìnive cosa le avesse fatto Anìbal esattamente, ma immaginai la risposta e non lo feci. Hugo allora insistette: “Questo è un banchetto in onore tuo”. “Grazie”, risposi. “beh, sediamoci”, disse Nìnive” “E i ragazzi dove sono?”, domandò la serva giovane. “Ah, giusto”, disse Hugo, e fischiò, e comparvero due schiavetti nuovi di circa sedici anni, molto magri ed emaciati. Domandai chi fossero e Nìnive mi rispose che erano due schiavetti nuovi che Anìbal aveva comprato per pochi soldi. Siccome i ragazzi erano molto spaventati, dissi loro di calmarsi, che adesso eravamo tutti liberi e che nessuno li avrebbe picchiati o trattati male e, come a voler mostrare la mia autorità, gridai: “Mangiamo una volta per tutte, che ho fame!”, e ci sedemmo a mangiare.
Quando terminammo, salii in camera mia. L’attività del porto volgeva al termine. Un uomo lavava con una pompa una gabbia di schiavi quasi vuota. Nìnive bussò alla porta ed entrò. Mi disse, di nuovo, che io ero il re e per lei tutto quello che facevo andava bene, e proprio quando ci stavamo baciando appassionatamente bussarono alla porta. “Sì?”, domandai. Erano i ragazzi nuovi, che volevano andarsene. “Andarvene dove?”, domandai. “In città”. “Che città?”, domandai. “No, no, in paese”, lo corresse l’altro. “Ah, volete andare in paese”, dissi, con un tono riflessivo. “Sì”, mi risposero. “E perché? Cosa c’è lì?”, domandai loro. “Lì c’è tutto e tutti, vogliamo vivere lì, è il posto migliore per noi, c’è molto futuro”, mi risposero eccitati. “Va bene, allora andate…”, dissi loro, e allora mi ringraziarono e se ne andarono. Volevo baciare di nuovo Nìnive ma si era addormentata nel letto, in una posizione molto strana. Più tardi, quando si svegliò, mi domandò se potesse trasferirsi nella mia stanza perché la sua era segnata dai ricordi delle cose che le aveva fatto Anìbal. Le dissi che non c’erano problemi, ma che il letto non era abbastanza grande. Lei mi disse che questo non era un problema, perché potevamo portare il letto di Anìbal, che era enorme e comodissimo. Mi sforzai di non domandarle niente e le dissi che andava bene.
La stanza di Anìbal era molto vicina alla mia. Di fatto, era uguale alla mia anche se un po’ più grande e con il bagno privato. Anche quella dava sul davanti del castello, e la vista era molto simile, con una piccola differenza di angolo. “E se ci trasferiamo qui?”, le domandai. Lei rimase un po’ a pensare e mi disse di no, non le sembrava una buona idea. Allora, con l’aiuto di Hugo e delle due serve smontammo il letto e lo rimontammo nella mia stanza. Il mio letto precedente lo volle Hugo e glie lo diedi.
Di notte, durante la cena, Hugo mi raccontò un piano che gli era venuto in mente: andare a comprare altri schiavi, liberarli, addestrarli ed invadere il castello del figlio di Anìbal per liberare gli schiavi che stavano lì, che dovevano essere molti. Discutemmo i dettagli e approdammo all’idea che, visto che il figlio di Anìbal, secondo ciò che aveva detto, doveva avere, a parte i motociclisti, molti guardiani, ci sarebbero serviti almeno cinquanta schiavi. “Riusciremo a comprarne così tanti? Dove teneva i soldi Anìbal?”, domandai. La serva giovane disse che c’era una cassaforte nella biblioteca: potevamo tentare di aprirla. Andammo lì e lei ci mostrò una porticina dietro a dei libri. Hugo buttò per terra la libreria e vedemmo che la cassaforte era di massima sicurezza. “Lasciate fare a me, di queste cose un po’ me ne intendo”, disse, e allora ci tirammo indietro e lo lasciammo lavorare con l’orecchio appiccicato al meccanismo. Nìnive disse che andava al bagno e la serva vecchia se ne andò perché aveva sonno. Approfittai per domandare alla serva giovane come si chiamasse. “Idomenea”, mi disse. “Ah, che bel nome”. “Grazie. Comunque nessuno lo usa, mi chiamano in tutti i modi possibili; Chufa, Lupa, Negra, Fonfi…”. “Ah, beh, io userò Idomenea”, le dissi e lei sorrise, mi disse grazie e, con mia sorpresa, forse approfittando del fatto che Hugo dava le spalle, mi mise la mano sotto la maglia e iniziò ad accarezzarmi il petto e la pancia. Allora le levai la mano e lei, come se niente fosse, andò vicino a Hugo e iniziò ad accarezzargli i capelli e il collo. Nìnive tornò con dei cioccolatini. “Erano nella stanza di Anìbal”, disse. Mentre mangiavamo i cioccolatini, io e Nìnive parlavamo e guardavamo Hugo che lavorava e Idomenea che lo accarezzava da tutte le parti. “Questa donna è tremenda”, mi disse Nìnive all’orecchio. “Sì, no?”, le dissi. “Sì, sì. A volte si mette ad accarezzarmi pure a me e devo levarle la mano”, mi rispose. Mi misi a ridere. All’improvviso sentimmo un crack e un urlo di gioia di Hugo. Ci avvicinammo, gli facemmo i complimenti e subito vedemmo che non c’erano molti soldi. Li contammo e calcolammo che sarebbero bastati a comprare tra i trenta e i trentacinque schiavi. “Saranno sufficienti”, mi disse Hugo. E allora vidi che una delle ferite sulla faccia stava spurgando e glielo dissi. “Sì, si è infettata ma non importa, guarirà”, mi disse, e uscimmo. Idomenea e Ninive se ne andarono in camera, mentre Hugo ed io uscimmo sulla porta del castello a fumare dei sigari che avevamo trovato nella biblioteca. “Belle le stelle, no?”, mi disse Hugo. Gli dissi di sì e che ciò significava che il giorno dopo sarebbero arrivate molte navi con molti schiavi e che allora dovevamo andare presto, per ottenere un buon prezzo. In quel momento, Hugo sembrò essere a disagio e guardò di lato; quando gli domandai cosa succedesse mi disse che voleva andare da solo. “Perché?”, gli chiesi. “Tu sei il re del castello. Fai fare qualcosa anche a me”. Un po’ infastidito, gli dissi che andava bene e poi buttai il sigaro per terra, lo pestai con il piede e me ne andai a letto.
Capitolo 10
Il giorno dopo mi svegliai e vidi la colazione sul comodino. Dedussi che chi la lasciava lì era la serva vecchia, perché Nìnive dormiva e Idomenea doveva essere con Hugo. Avvicinai la mano alla teiera e sentii che era calda. Mi alzai e aprii la finestra. Cinque schiavi tiravano una piattaforma piena di schiavi e la spostavano lentamente lungo il cammino che portava al castello. Hugo camminava con le mani in tasca, fischiettando. Mi vestii rapidamente, scesi, corsi qualche minuto fino a che li raggiunsi e mi avvicinai a Hugo. “Che ti succede? Perché li fai lavorare come schiavi?”. “Sono schiavi, poi li liberiamo”, mi rispose Hugo. “No, non sono schiavi. Devono arrivare al castello liberi”, gli dissi, e ordinai a quelli che trascinavano la gabbia che la mettessero giù. “No”, mi disse Hugo, ma io lo guardai duro, mi avvicinai alla gabbia e la aprii. “Uscite per favore, siete liberi”, dissi, e da lì a poco, senza capirci molto, gli schiavi iniziarono a uscire dalla gabbia. Erano sporchi e stanchi. “Quanti sono”, domandai a Hugo. “Quarantacinque”, mi rispose. “Davvero? Bene!”. Quando uscirono tutti, chiesi loro che mi ascoltassero, e dissi loro che erano liberi e che insieme saremmo andati a liberare altri schiavi. Non sembravano capire, così indicai il castello e dissi loro che camminassero verso di là. “Che ne facciamo della gabbia?”, mi disse uno di quelli che la portavano. “Lasciatela lì, non ne abbiamo più bisogno”, gli risposi.
Quando arrivammo al castello, Hugo chiese agli schiavi che si disponessero in ordine. “Come?”, domandò uno. “In fila, in che altro modo sennò?”, gli rispose Hugo con durezza. Poi li contò, si avvicinò a me e mi disse con aria di rimprovero, quasi accusandomi: “Ne mancano otto, devono essere scappati”. “Non importa”, gli risposi, “quelli erano i peggiori”. “No”, mi rispose, “ce n’era uno molto muscoloso”. “E va bene… son cose che succedono”, gli risposi tentando di non dargli importanza. Hugo corse fino alla casa, uscì con una pompa che connesse ad una cannula del giardino ed innaffiò gli schiavi violentemente, mentre questi si lagnavano un po’. Poi mi domandò dove li avremmo fatti dormire. Gli risposi che non lo sapevo, che era da vedere. In quel momento mi sembrò appropriato dir loro qualcosa e dissi quello che mi uscì: che la voce della libertà era nei nostri cuori e che il nostro obiettivo era farla gridare sempre più forte, e che era meglio esser morti che schiavi. Ci fu silenzio e allora, a disagio, decisi di gridare come slogan l’ultima cosa che avevo detto: “Meglio morti che schiavi”. Lo gridai di nuovo, stavolta guardando Hugo perché lo ripetesse con me. Hugo ed io lo ripetemmo e uno o due schiavi presero coraggio anche loro. La quinta volta che lo ripetevamo già eravamo in vari. La decima, tutti gridavamo con esaltazione: “Meglio morti che schiavi!”.
Capitolo 11
Entrai nel castello e, con l’aiuto di Nìnive, mi misi a cercare la stanza piena di trofei di caccia che avevo visto. Come supponevo, c’erano anche molte armi di tutti i tipi: per qualche motivo, c’erano dieci fucili; c’era, tra l’altro, il fucile rosso che decisi di prendere io per questioni simboliche e, nel farlo, capii perché Anìbal aveva preferito usare quello la volta che eravamo andati a caccia; c’erano molte pistole e molti coltelli ed altre armi strane ed enigmatiche. Radunammo tutto su un carretto che trovò Nìnive ed io lo portai in giardino. Lì c’era Hugo che tentava di addestrare gli schiavi, che non lo stavano a sentire. Quando videro me, ad ogni modo, si rallegrarono e si misero in ordine in una specie di fila. “Meglio morti che schiavi!”, gridai, e quelli lo ripeterono con entusiasmo. Mi accorsi che si erano già resi conto di essere liberi e vidi come ciò avesse cambiato loro la disposizione d’animo ed anche la postura. Spiegai che avevamo delle armi e che Hugo, che da lì in avanti sarebbe stato il loro capitano, sarebbe stato incaricato di decidere chi avrebbe usato ciascuna di esse, a seconda dei meriti e delle abilità individuali. Spiegai loro anche che il mio fucile, dal colore rosso, simboleggiava il sangue versato da migliaia di schiavi nella Storia, e che quel sangue, sul mio fucile, avrebbe sparato contro i porci schiavisti. “Meglio morti che schiavi! A morte i porci schiavisti!”, gridarono. Allora spiegai a Hugo all’orecchio che non avevo trovato niente di più di una scatolina di proiettili per i fucili ma che non doveva preoccuparsi perché io sapevo che Anìbal ne aveva a migliaia; che in ogni caso iniziasse facendoli schierare o fare dei movimenti, quello che preferiva. Lui, probabilmente contento del titolo di capitano, mi disse di fidarsi di lui, che sarebbe andato tutto bene e che, se non trovavamo le munizioni, avremmo potuto comprarle. “Con che soldi?”, gli domandai. “Uh”, rispose lui. Allora gli dissi che non si facesse problemi e, a voce alta, esclamai: “Avanti, Capitano Hugo”.
Quando entrai nel castello, Nìnive, che mi aveva osservato, mi abbracciò e mi disse che, se anche gli avevo ispirato fiducia dal primo momento, non avrebbe mai pensato che sarei stato un re così bravo e che avrei fatto dei discorsi così belli ed efficaci. Io le dissi che era una regina perfetta, e che era più bella che mai. Quest’ultima cosa era sicura: io suoi lineamenti erano diventati più delicati e la sua postura era molto più regale. Poi le dissi che mi preoccupava il fatto delle munizioni, e le chiesi se potesse cercarle con l’aiuto delle altre due donne. “Non ti preoccupare”, mi rispose. Allora andai a fare un giro nel bosco. Speravo di vedere la bambina selvaggia, ma non c’era nessun segno che mi riconducesse a lei. Guardai le piante e identificai alcune radici. E di colpo vidi la pianta di cui avevo mangiato la radice prima di uccidere Anìbal. “Dunque…”, dissi a voce alta, e la strappai e mi misi a sedere a terra per osservarla, e mi resi conto che quella che avevo mangiato nel bosco non era quella che pensavo, ma un’altra per me quasi sconosciuta, molto simile ad una conosciuta, e me la misi in tasca senza sapere il perché. Alcuni minuti dopo, stavo guardando un uccello con un lombrico in bocca mentre pensavo con preoccupazione alla mancanza di munizioni, quando ebbi un’illuminazione: prima della battaglia i combattenti avrebbero mangiato la radice.
Quando tornai, Nìnive mi disse che avevano cercato dappertutto, senza successo a parte un’altra scatoletta di proiettili, ma di pistola. “È molto poco…”, dissi. Contai i proiettili che avevamo: non molto più di due per ogni fucile e uno per ogni pistola. Allora le parlai della mia idea e le spiegai che dovevamo raccogliere molte radici; le mostrai la pianta e lei mi disse che lei stessa, Idomenea e la serva vecchia sarebbero andate a raccogliere le radici di… “Come si chiama?”, mi domandò. “Non lo so… chiamiamola bambina selvaggia”. Nìnive sorrise: “Che bello, bambina selvaggia”. Le domandai dove fossero le altre due donne, e mi disse che erano in cucina a preparare da mangiare alla truppa. “E tu?” le domandai. “Io no, sono la regina”. “Nìnive”, le dissi “tutti dobbiamo fare uno sforzo”. Allora lei, con un piglio orgoglioso, si diresse in cucina. Io la seguii e ringraziai le donne per il loro lavoro e presi un sandwich per mangiarmelo. Con il sandwich in mano, mi impegnai a cercare un posto nel castello dove mettere a dormire la truppa. Non c’era niente di così grande, e non mi sembrò giusto metterli distanti da noi, così decisi che avrebbero dormito in gruppi di cinque nelle stanze vuote che c’erano un po’ ovunque.
Quel giorno il tempo passò velocissimo: eravamo costantemente occupati a organizzare tutto quanto per la truppa: mangiare, letti, ecc. Di notte, mentre mangiavamo qualcosa nella mia stanza, Hugo mi disse che era soddisfatto di come era andato l’addestramento e che gli sembrava che tra due giorni sarebbero stati pronti per andare al castello. Quando gli dissi che non avevamo trovato una quantità di proiettili sufficiente, mi rispose che, avendo previsto questa possibilità, gli era venuta un’idea. “Possiamo vendere tre o quattro di loro che non sono un granché e con il ricavato comprare i proiettili”. Gli parlai con fermezza: “Hugo, c’è una cosa che non capisci: non sono schiavi, non possiamo venderli”. “Ma lo sono, li abbiamo comprati e…”. Alzai la voce. “Ma niente. Oltretutto ho un’idea migliore”. Allora gli spiegai la cosa delle radici, che all’inizio non lo convinceva. “È meglio dei proiettili”, gli dissi: “provoca una furia distruttiva”. “Una furia distruttiva? Beh, sembra che non ci sia altra scelta”. “No, o perlomeno non mi viene in mente”. “No, nemmeno a me”.
All’improvviso sentimmo un gran rumore e delle voci: erano gli schiavi che stavano trovando sistemazione. Sembravano contenti. Dunque, parlai a Hugo del mio progetto di bruciare tutti i posti in cui Anìbal mi aveva fatto lavorare. “Devo farlo per dimenticarli”, gli spiegai, e immediatamente mi passarono per la mente immagini dell’umiliazione cui ero stato sottoposto. “Nessuno mai è stato sottomesso a una cosa del genere”, mi disse Hugo e mi raccomandò di farlo quando lui se ne fosse andato con la truppa a conquistare il castello, per non generare il caos. “Cosa? Guarda che vengo anch’io, Hugo”, gli risposi sorpreso. “No, ci ho pensato e non mi sembra una buona idea. Qualcuno deve rimanere qui, in questo castello appena conquistato. Non possiamo abbandonarlo. Tu, che sei il re, dovresti rimanere con cinque soldati. E con l’auto, per poter venire da me”. “E poi?”. “Beh, mi viene in mente che quando avremo preso quel castello, che deve essere enorme, io potrei rimanere lì ed armare un altro gruppo con un altro capitano che conquisti un altro castello, non so…”. “Dici di continuare a conquistare castelli?”. “Mm sì, suppongo di sì. E sennò?”. “Non ci avevo pensato…”. Rimanemmo entrambi zitti. Io, pur stranito all’inizio, poi dovetti accettare che il piano era ottimo e gli dissi che andava bene, avremmo fatto così.
Capitolo 12
Il giorno dopo mi svegliai e vidi la colazione sul comodino. Avvicinai la mano e sentii che la teiera era calda. Nìnive dormiva. Mi alzai e aprii la finestra. La giornata era gradevole, né calda né fredda e sotto, in giardino, Hugo addestrava la truppa con passione: li faceva correre, buttarsi a terra, puntare con i fucili e le pistole, saltare su delle balle di fieno con il coltello tra i denti. Separatamente, un gruppo di cinque soldati si allenava con le armi strane; in qualche modo sembravano aver dimestichezza e davano un’impressione di pericolo. Svegliai Nìnive, le offrii una tazza di tè e le chiesi di ricordarsi di andare a prendere le radici. “Le bambine selvagge”, disse lei con la voce ancora addormentata, gli occhi chiusi e un sorriso. “Sì le bambine selvagge”, le risposi, serio, e le diedi un bacio. La giornata trascorse molto rapida. Di pomeriggio, prima del tramonto, le tre donne tornarono dal bosco con una cesta enorme piena di radici. “Benissimo”, dissi loro. E allora Nìnive mi spiegò che all’inizio non riuscivano a trovare niente ma a un certo punto avevano visto la bambina selvaggia e avevano iniziato a seguirla perché era sembrato loro che lei glielo chiedesse, ed erano arrivate in un posto pieno di quelle piante. “Benissimo, quella bambina è fantastica…”. Mostrai a Hugo le radici. “Belle”, disse lui. Ed era vero, le radici erano belle, rosse pelose e appiccicose, morbide e carnose di fuori ma con un bastoncino molto sottile all’interno, come un osso che si riusciva a sentire schiacciandole; parevano di un altro pianeta, e forse lo erano. Le lavammo e le mettemmo ad asciugare su un tavolo all’entrata del castello. Hugo mi disse che la truppa era pronta, che il giorno dopo sarebbero andati a conquistare il castello. “Perfetto”, dissi, e allora mi venne in mente una cosa e, spaventato, gli domandai. “Sai dov’è e come arrivare?”. Hugo impallidì. Senza dir nulla andammo a cercare Nìnive e glielo domandammo, ma non lo sapeva nemmeno lei. Idomenea neanche, così andammo dalla serva vecchia. Lei credeva di saperlo, anche se non ne era molto sicura; ci era andata una volta, anni prima, quando il castello ancora apparteneva a… “Ma come si arriva?”, le domandò Hugo. “Beh”, disse lei “per di là”, e indicò, con la mano tremante, la direzione contraria al porto. “Di là c’è la città”, le dissi. “Sì, il paese”, disse lei. “No, però noi cerchiamo il castello di…”. “Sì, sì, è prima della città”. “Dove?”. “Non lo so, sono passati molti anni, io di solito andavo a cercare…”. “Per favore”, le intimammo e allora lei credette di ricordarsi che c’era una mappa in biblioteca. Andammo di corsa alla biblioteca e spendemmo ore a rivoltare tutto. Hugo, ogni tanto, rompeva un libro con un’imprecazione, per ripicca; di solito un libro molto antico. A volte anche un manoscritto o un papiro. “Guarda questo!” mi disse Hugo a un certo punto. Erano dei vasi, nascosti tra i libri, che contenevano feti stranissimi, mezzi umani. Li lasciammo in un angolo, impressionati, e continuammo a cercare la mappa per un’ora ma senza successo. Allora mi venne un’idea: vedere se c’erano delle tracce delle moto. L’idea entusiasmò Hugo e mi disse che c’era un motivo se io ero il re. “Sono il re perché ho ucciso Anìbal”, gli dissi. “Sì, sì, ma a maggior ragione hai una testa non da poco…”. Corremmo in giardino. Era già un po’ buio; nonostante ciò, dopo un po’, riuscimmo a vedere le tracce delle moto e le seguimmo per alcuni metri. A volte si interrompevano, ma Hugo disse che erano sufficienti (a marcare il cammino). “Niente ci fermerà!” gridò e andammo nella sala da pranzo, dove cenammo con le nostre donne e ci ubriacammo un po’.
Nella notte, mentre ero sdraiato con Nìnive, udii dei gemiti di piacere di uomini. “Cos’è stato?”, le domandai e Nìnive rise. “Perché ridi?”, le domandai. “Non so… ieri non li hai sentiti?”. “No…” le dissi, e rimasi zitto e lei mi disse che credeva di aver visto uno dei soldati con il libro delle posizioni sessuali. “Davvero?”, le domandai. “Sì, credo di sì”. Rimasi a riflettere e poi dissi a Nìnive: “Sai cosa? Certe volte ho l’impressione che questi nuovi schiavi liberati non abbiano capito cosa gli è toccato, e quindi non riescono a vedersi come liberi, ma nemmeno come schiavi, e per il momento sono solo soldati, il che non è altro che una funzione transitoria. Non so come si evolverà la situazione. Cosa saranno dopo?”. Nìnive mi rispose che non dovevo pensare a quelle cose, che ci sarebbe stato tempo ma io le dissi di no: era questo il momento giusto perché dopo come avrebbero smesso di essere dei soldati? Avrebbero voluto convertire la funzione in un’identità e allora avrebbero continuato a combattere anche quando il nemico si fosse estinto. “Il nemico non si estingue mai”, mi rispose Nìnive, e io rimasi a pensarci fino a che mi addormentai.
Capitolo 13
Il mattino seguente mi svegliai e vidi la colazione sul comodino. Nìnive dormiva con la bocca aperta. Mi alzai e aprii la finestra. La giornata era un po’ fredda, anche se gradevole, e di sotto, in giardino, la truppa era schierata e Hugo controllava ogni soldato con certa autorità. Gli urlai un saluto e lui mi rispose; allora tutti mi guardarono e io gridai: “Meglio morti che schiavi”. E sotto tutti risposero: “A morte i porci schiavisti!”. Quando mi girai, Nìnive si era svegliata. Sembrava preoccupata. “Che succede, Nìnive?”, le domandai. “Non lo so, ho fatto un brutto sogno”. “Sì? Su cosa?”. “Non mi ricordo, ma era brutto. Ci succedeva qualcosa, a me e a te, e dovevamo scappare”. “Scappare da dove?”. “Non so, non mi ricordo”. “Va bene, non preoccuparti”, le dissi e le servii una tazza di tè.
Poi scesi e feci un discorso alla truppa. Dissi loro molte cose, e conclusi con la seguente idea: “Anche se nasco schiavo e mi cresce e mi alimenta un padrone, e se i miei padri e nonni sono stati o sono ancora schiavi, sono comunque libero nel momento in cui lo decido, perché il momento in cui lo decido è il momento in cui divento cosciente della differenza tra schiavitù e libertà, e questa consapevolezza della differenza è la libertà stessa, e l’azione che mi porta alla libertà effettiva sta a un solo passo da tale decisione. Però se non c’è questa decisione, non c’è niente”. Dopodiché ci fu un momento di silenzio scomodo. Mi resi conto che nessuno aveva capito niente e Hugo per rimediare gridò: meglio morti che schiavi! A morte i porci schiavisti”, e tutti lo ripeterono, compreso me. Poi Hugo mi prese da parte e mi chiese di non dire di nuovo cose del genere: “Perché? Sono cose importanti”. “Sì, mi rispose, “è vero, ma loro non le capiscono, e questo li rende insicuri, e non c’è niente di peggio di un soldato insicuro”. “Va bene”, gli dissi, “ma dopo la battaglia verrò al castello per farglielo capire”. “Beh, ci sarà tempo per quello. Comunque, non so se sono molto d’accordo: forse è il contrario”, mi rispose. “Come il contrario?”. “Certo, forse la coscienza arriva dopo l’effettiva libertà”. “Ah, può essere… ma non credo”, gli dissi. “Beh, vedremo. Perché questi qua la coscienza non ce l’hanno, ma la libertà sì e, se le cose vanno per il meglio, la coscienza apparirà da sé”. E dopo aver detto questo Hugo tornò dalla truppa e gridò loro che la battaglia che avrebbero combattuto era decisiva, che avrebbero liberato molti fratelli ridotti in schiavitù e che questa liberazione avrebbe portato a delle altre, ecc. Poi presi di nuovo Hugo da parte e gli chiesi di far attenzione con le radici, che non gliene desse troppe perché poteva essere pericoloso; che la cosa migliore sarebbe stata che le mangiassero appena prima di dare l’assalto al castello, perché pensavo che l’effetto fosse breve, e lì pensai, anche se non ne feci parola, che ero stato stupido a non fare prima delle prove sull’effetto. Hugo mi disse di non preoccuparmi, che mi avrebbe mandato un messaggero con la notizia della vittoria. Quindi gridò “Calambra!” e arrivò un soldato bassotto con una faccia che faceva pensare a…e che non mi piacque per niente. “Questo è Calambra”, mi disse Hugo, “il mio uomo più fidato”. “È un onore”, mi disse Calambra “Lei è il nostro esempio”. “Beh, grazie”, gli risposi, e lui insistette: “Tutti vogliamo essere come lei”. “Va bene, va bene”, gli dissi e gli diedi una pacca perché se ne andasse.
Immediatamente dopo, la truppa si formò e iniziò a marciare dietro ad Hugo, a fianco di Hugo, con mia grande sorpresa, camminava Idomenea, e davanti a Hugo, curvo, camminava Calambra che cercava le tracce delle moto e indicava il cammino. Sul portone del castello, Nìnive e la serva vecchia conversavano con i cinque soldati che rimanevano con noi. Mi avvicinai e dissi loro che sarebbe andato tutto bene. “Sicuramente”, disse uno dei soldati, che si chiamava Justino ed era molto alto ed abbastanza più vecchio degli altri quattro, che avevano dei nomi strani ed erano praticamente indistinguibili tra loro. Dissi loro che dopo aver pranzato, più verso il pomeriggio, avevamo da fare un lavoro, che consisteva nel bruciare le installazioni dove il padrone del castello mi aveva fatto soffrire umiliazioni insopportabili che mi avevano condotto a quella ricerca di libertà che poi era sfociata nella loro liberazione, e per questo motivo bruciare quel luogo sarebbe stato un simbolo per tutti. “Nel frattempo”, dissi loro, “andate per favore in biblioteca e seppellite i vasi con feti che troverete lì”.
Capitolo 14
Pranzai con Nìnive. “Hai visto che Hugo si è portato dietro Idomenea?”, le dissi a un certo punto. “Eh, sì … non l’avrebbe lasciata qui con te e quei soldati”, mi rispose. “Perché?”. “Non hai visto le facce che hanno? A me fanno un po’ paura, mi guardo bene dal rimaner sola con loro. Adesso, quando uscirai, mi chiudo in stanza e chiudo a chiave”. “Sul serio? Tanta paura ti fanno?”. “No, non è tanto la paura. È che non mi sento sicura. Ci sono stati molti cambiamenti e molto veloci. Prima, anche se era peggio, sapevo quello che mi aspettava ogni giorno, sapevo addirittura cosa mi avrebbe fatto Anìbal e non mi faceva paura, mi sgridava solo un po’. Adesso cosa sono? Cosa devo fare? E tu cosa sei?”. Mi misi a ridere e lei continuò seria “No, parlo seriamente. Chi sei? Quando te ne andrai? A volte penso che da un momento all’altro te ne puoi andare e lasciarmi sola. E a quel punto cosa farò? Idomenea se ne è andata con Hugo… la serva vecchia può morire da un momento all’altro… Tu te ne vai… Quegli uomini potrebbero pure ucciderti e allora…”. La abbracciai e le dissi di non preoccuparsi, che tutto sarebbe andato bene ma, mentre lo dicevo, mi turbava l’idea che avesse ragione. Lei, nel frattempo, piagnucolava un po’ e ripeteva “è tutto così instabile”.
La lasciai sdraiata sul letto e andai a cercare Justino nella sua stanza. Non c’era. Uscii in giardino e lo vidi che annusava dei fiori. “Justino, come andiamo?” gli dissi. “Bene, bene, immerso nella natura”. “Vedo, sì. Dove sono gli altri?”. “Per favore, non mi parlare degli altri”. “Perché?”. “Non so, hanno trovato un libro da qualche parte e ora danno il tormento con quel tema …”. “Che libro?”. “Guardi, stanno arrivando…”. Ed ecco i quattro che arrivavano dal bosco, saltellando e spintonandosi allegramente, ridendo come matti. Quando arrivarono, dissi loro che dovevamo fare un lavoro, che era il lavoro di cui avevo parlato quella mattina; erano solo tre capannoni e dopo avremmo potuto riposarci tranquilli e liberi. Andammo in una stanza che stava a fianco della cucina e prendemmo del combustibile, esplosivi, fiammiferi, pale e asce; dopodiché afferrammo maschere, occhialoni, stivali e guanti e uscimmo in direzione del primo capannone. All’improvviso una nube molto oscura e spessa ricoprì il cielo. “Che paura” disse con voce scherzosa uno dei quattro soldati, e gli altri tre risero e continuarono a fare battute per tutto il resto della strada. Ma quando arrivammo al capannone e videro cosa c’era dentro ammutolirono. “E qui Lei…?”, mi domando uno. “Sì qui io…”, gli risposi. “E l’hanno obbligata a…”, mi domandò un altro. “Sì, mi hanno obbligato a…”, gli risposi. “E per ore Lei…”, mi domandò un altro. “Sì, io per ore…”, gli risposi. E il quarto mi domandò: “E adesso noi lo…”. “Sì noi lo…”, gli risposi. “Io me ne vado”, disse Justino. “Lei non va da nessuna parte”, gli risposi: “la faremo finita con questo posto in modo che nessuno, mai, debba…”. Allora ci mettemmo a lavorare: facemmo spazio, innaffiammo tutto con il combustibile, collocammo gli esplosivi e uscimmo; una volta fuori e lontani un centinaio di metri, accendemmo la miccia. Quando stavamo arrivando al secondo capannone udimmo l’esplosione, vedemmo le fiammate in aria e festeggiammo, ma smettemmo di far festa entrando nel nuovo capannone, che era più grande e più putrefatto e ripugnante del precedente. “E il prossimo è più grande?”, domandò uno. “Sì ma è l’ultimo”, gli risposi. Facemmo la stessa cosa che avevamo fatto nel precedente ma, questa volta, ci diede più lavoro e non riuscimmo a evitare di sporcarci, vomitare e svenire; nonostante loro soffrissero, io ero contento: era la stessa cosa che ero stato obbligato a fare io, ma presa da una prospettiva molto diversa. Quando stavamo arrivando al terzo capannone, vedemmo scoppiare il secondo. Siccome era già abbastanza buio, l’esplosione, più grande della precedente, risultò impressionante e addirittura spettacolare, cosicché tornammo festeggiando. E, di nuovo, smettemmo di festeggiare entrando nel terzo capannone. “No, no, io me ne vado!” gridò Justino, e gli altri quattro lo acchiapparono e glielo impedirono. “È l’ultimo, dai!”, gli dissi. E lavorammo in una maniera che poteva far pensare all’umiliazione ma in realtà era tutto il contrario; questo almeno mi sforzai di far capire: che quella (missione) era una missione al servizio la libertà; “prova ne sia”, dissi loro, “che non si potrà fare mai più”. Ogni tanto, uno di noi sveniva; allora un altro lo prendeva e lo portava fuori a prendere aria. Rimanemmo lì abbastanza tempo fino a che tutto fu pronto, e quell’ultima esplosione la vedemmo da un ruscello in cui ci eravamo immersi per ripulirci un minimo, anche se grazie ai guanti, scarponi, ecc., non ci eravamo sporcati quasi per niente. Lo spettacolo dell’esplosione ci fece sguazzare di gioia. Eravamo sfiniti ma felici; io almeno ero felicissimo. Le fiamme dei tre capannoni che ardevano illuminavano il cielo e, mentre io e Justino guardavamo rapiti, dietro di noi gli altri quattro se la ridevano, si prendevano a spinte e, mi sembrò ad un certo punto, si davano pizzicotti palpeggiandosi sott’acqua.
Quando tornammo al castello, Nìnive e la serva vecchia stavano sul portone, ad aspettare. Nìnive era furiosa e spaventata, ma si calmò subito quando l’abbracciai. Dopo aver mangiato qualcosina in camera e aver chiacchierato un po’, ci addormentammo.
Capitolo 15
Il giorno dopo mi svegliai tossendo. Nìnive dormiva a pancia in giù, scoperta e con la camicia da notte che le era salita; gliela misi a posto e la coprii con il lenzuolo. Mi sembrò strano che sul comodino non ci fosse la colazione. C’era un odore forte, strano, un po’ di bruciato, che pensai venisse dai capannoni. Non entrava molta luce, mi avvicinai alla finestra, la aprii e chiusi di colpo, con orrore. Attraverso il vetro, vidi il giardino totalmente grigio, coperto di uno strato di cenere in movimento che pareva liquido; la cenere era anche sospesa nell’aria e oscurava tutto. “Nìnive”, dissi senza smettere di guardar fuori dalla finestra, “svegliati”. “Che succede?”, disse lei, tossendo. “Guarda”, le risposi indicando fuori. Lei si avvicinò, guardò e, senza dire niente, mi abbracciò e mi poggiò la testa sulla spalla. Ci infilammo una vestaglia e andammo in cucina. La porta che dava sull’esterno era rimasta aperta: tutto era pieno di cenere e, in più, per qualche motivo, non c’era acqua. “Forse per l’esplosione”, dissi a Nìnive. “Forse si sono otturati i tubi”, disse lei. Vedemmo la serva vecchia seduta su una sedia: sembrava addormentata, e invece era morta. Allora Ninive, piangendo, mi domandò cosa avremmo fatto. “Niente”, le dissi, “aspettiamo che la cenere si depositi”. “Non si depositerà”, mi rispose, seria e scoraggiata. “Che ti succede? Come non si depositerà”, le domandai. “Io sapevo che sarebbe andato tutto storto, te l’avevo detto”. “Cosa mi avevi detto?”. “Ti avevo detto che avevo paura, che avevo fatto dei brutti sogni”. Non le risposi. Tornammo in camera, lasciai lì Nìnive e scesi. La porta di uscita del castello era socchiusa. Mi affacciai e vidi Justino. “Io gliel’avevo detto”, mi disse. “Cosa mi aveva detto?”, gli domandai con tono indignato. “No, non le avevo detto niente, ma c’era un motivo se non volevo fare ciò che abbiamo fatto la notte passata”. “Lei non voleva farlo perché le faceva schifo”. “Beh, sì, mi ha schifato e per quello volevo andarmene; difatti adesso rimarrò segnato a vita dallo scenario in cui mi ha catapultato ma, nella realtà, anche se in quel momento non me ne rendevo conto, io non volevo farlo perché sapevo che sarebbe successo qualcosa del genere. E non avevo forse ragione? Guardi cosa abbiamo ottenuto. Cenere, cenere nera ovunque che ricopre tutto. Non si riesce a respirare e a inghiottire, la bocca si secca, gli occhi lacrimano. Non c’è acqua né luce. Questo è uno scenario di morte. Prima, il marciume era contenuto in tre luoghi; c’era solo da metterlo a posto ogni tanto; adesso si è espanso per i giardini, i fiumi, i boschi…”. Quando disse boschi pensai alla bambina selvaggia. La immaginai che aveva difficoltà a respirare, che non riusciva a procurarsi cibo, rannicchiata sulla sommità di un albero ricoperto di cenere, e sentii pena per lei, e colpa. “E ora che faremo?”, mi domandò Justino. “Aspettiamo che la cenere se ne vada”, gli risposi. “Scusi ma la cenere non se ne andrà”. “Come no?”, gli gridai. Lui mi guardò: “Guardi, venga con me”, mi disse, e mi fece il gesto di accompagnarlo. Facemmo il giro intorno al castello fino a un angolo e da lì vidi le tre colonne di fuoco e fumo nero, enormi e altissime che, come due comignoli giganti, spargevano il marciume che si stava bruciando nei capannoni. Justino allora disse, senza rivolgermi lo sguardo: “Può durare per giorni. Chi mai penserebbe di bruciare una cosa del genere?”. “Io. Guardi, se la cenere non se ne va, appena arriva il messaggero di Hugo, ce ne andiamo e ci trasferiamo nell’altro castello”, gli risposi, un po’ irritato. “Meglio così. Ma deve essere presto”. “Sarà presto, non si preoccupi, e si tranquillizzi un po’”. “Io sono tranquillo, ma, con tutto rispetto, sono più grande di lei e ho più esperienza.” “Più grande? Al massimo avrà tre anni in più”. “Va bene, ma sono comunque tre anni”. “Sì ma voglio dire che non mi sembrano sufficienti”. “Può darsi…”, disse. “E dove sono gli altri quattro?”, gli domandai. “Non lo so, non ne ho idea, né lo voglio sapere”, mi rispose. “Justino, mi ascolti bene: quei quattro sono responsabilità sua.”. “Non so se voglio che siano responsabilità mia”. “Bene, non importa se vuole o non vuole, lo sono. Ci vediamo dopo”. E lo lasciai e tornai in camera.
Nìnive non c’era. Per qualche motivo, pensai che stesse in cucina ed andai lì. “Che fai?”, le dissi quando la vidi. “Non lo vedi?”, mi rispose senza guardarmi? Aveva disteso la serva vecchia su un bancone, l’aveva spogliata e la stava lavando con uno straccio. “Che fai?”, le domandai di nuovo. “Che fai? Che fai? Basta con questa storia, è l’unica cosa che sai dire?”, mi rispose senza guardarmi e con un tono abbastanza spiacevole. Mi avvicinai. “Vuoi che la seppelliamo?”, le domandai, e le appoggiai una mano sul fianco che lei mi tolse bruscamente. “E a te cosa pare? Questa era una buona donna; per me in certi momenti è stata come una madre, o almeno come una zia. È morta in un momento difficile e io voglio farle il funerale che si merita. Su, aiutami per favore”, e sollevò dal pavimento un vestito bianco e, a fatica, iniziammo a metterglielo indosso. Siccome risultava difficile, presi il corpo da sotto le ascelle e lo sollevai mentre Nìnive le metteva addosso il vestito in cui quasi non entrava; ma quando già aveva il vestito all’altezza della cintura, le braccia mi si indurirono e il corpo mi scivolò di mano e cadde al suolo con un rumore tremendo. Nìnive mi guardò con un odio che fino a quel momento non avrei creduto possibile, mentre io le chiedevo scusa e tentavo di sollevarla. “Sei un’idiota! Fai male tutto!”, mi gridò. Non dissi niente, ricollocai il corpo sul bancone e lo sistemai con gesti falsamente affettuosi, diretti più a Nìnive che alla serva vecchia. Nìnive tirò fuori da un piccolo astuccio una matita per le labbra e il rimmel. “Che fai?”, le domandai. “Basta con questo che fai!”, mi gridò. “Dove hai trovato queste cose, il vestito, il trucco?”, le domandai. “Erano nell’armadio della stanza di Anìbal. Suppongo che appartenessero a sua moglie”. “Ah”. Con cura talmente esagerata che mi sembrò maniacale, Nìnive truccò in maniera orribile ed eccessiva la serva vecchia. Poi si allontanò, guardò com’era venuta e mi disse: “Per favore, voglio che la seppellisca tu, non quei soldati disgustosi”. “Io da solo? Hai visto com’è fuori?”. “Ti chiedo solo questo. Non puoi fare questa cosa per me?”, mi disse, molto nervosamente, e se ne andò.
Lì seduto, pensai a cosa stesse facendo Hugo e a cosa stessi facendo io, alla mia situazione ed alla sua, voglio dire, mi paragonai a lui, e il risultato del paragone mi scoraggiò e mi fece pensare di aver preso delle decisioni sbagliate, lasciando andare il poco potere che a un certo punto avevo acquisito e il poco amore che avevo iniziato a ricevere. Uscii sul portone del castello. Giustino era ancora lì. “Che fa?”, gli domandai. “Mi scusi”, mi disse. “Come?”. “Mi scusi per averla trattata male”. “Lei non mi ha trattato male”, gli risposi un po’ infastidito. “No, va bene, qualunque cosa sia: io sono al suo servizio”. Gli chiesi di aiutarmi nella sepoltura, ma questo sembrò dargli fastidio. “Di nuovo con queste cose? Perché non lascia tutto com’è?”. Mi irrigidii: “Non era al mio servizio?”. “Sì, sì. Comandi.” Allora andammo a prendere il corpo. Quando Justino lo vide, scosse la testa in segno di disapprovazione. “Cosa c’è?”, gli domandai. “Mi dispiace per la signora. Chi l’ha conciata così?”. Non gli risposi. La sollevammo, la mettemmo in un sacco e uscimmo dalla porta della cucina. Uscendo, vedemmo le tre colonne enormi ed altissime e fumo nero che, come comignoli giganti, spargevano il marciume che si stava bruciando nei capannoni. “Sono più grandi e continueranno a crescere”. Le guardai: avevano assunto la forma di tubi neri; dalle estremità, la cenere usciva con forza verso su e formava vortici ed altre figure. Appoggiammo il corpo a terra. “Ora che facciamo?”, mi domandò Justino. “Bisogna seppellirla”, gli risposi. “Non abbiamo pale”, mi disse. “E perché non va a cercarne una?”, gli risposi. “Una o due?”, mi disse, sorridendo. “Porti tutto quello che trova”. Se ne andò e tornò con due pale. Decidemmo di seppellirla proprio lì, al margine del castello. Dopo un minuto da che avevamo iniziato a lavorare, eravamo già coperti di cenere, tossivamo e ci lacrimavano gli occhi. Avevamo scavato appena due piccole buche non molto profonde che non erano nemmeno collegate. La cenere volava dappertutto e non ci faceva vedere niente. “E il corpo?”, domandai a Justino. Rivangammo la terra e la cenere per un bel po’; siccome il corpo non spuntava, Justino disse. “Allora già è seppellita”. Gli risposi di sì, che in realtà non potevamo fare altro; pestammo un po’ la terra con le pale e tornammo in cucina; ma io mi sentivo male di modo che, non appena se ne andò, tornai a cercare il cadavere. Cercai molto e non lo trovai; questo mi fece sentire ancora peggio.
Presi qualcosa da mangiare in cucina e salii in stanza. Nìnive aveva chiuso la porta a chiave. Mi toccò bussare un bel po’ finché non mi aprì. “Che è successo? Stavi dormendo?”. “No”. “E perché ci hai messo tanto ad aprirmi?”. Non mi rispose. Misi il cibo sul letto e le feci il cenno di servirsi. “Sta cosa fa schifo”, mi disse. “Non vedo perché”, le risposi. “Non so, guarda, fa schifo, schifo”. Guardai il cibo: “A me sembra perfettamente a posto”. “No guarda bene, è uno schifo”. Il cibo non aveva niente di male, così le dissi che se lei non voleva mangiare non lo mangiasse e basta. Quando vide che mi mettevo in bocca il primo boccone, uscì di corsa dalla stanza; subito dopo la sentii vomitare in bagno. Tornò. “Cos’hai?”, le domandai. “Ti ho detto che mi faceva schifo, e tu hai mangiato lo stesso”. “Ho fame”. “E perché non vai a mangiare in cucina?”. “E va bene”. Presi il cibo e scesi giù. Li c’era Justino che mangiava. “Mi è venuta un’idea”, mi disse: “andiamo a prendere la macchina e ce ne andiamo”. “Dove?”, gli domandai. “Da Hugo”, mi rispose. “Non è ancora arrivato il messaggero”, gli dissi. “Il messaggero non verrà, con tutta questa cenere”. “Sì che verrà”, gli risposi. “No, non verrà”. E quando gli dissi: “staremo a vedere”, bussarono alla porta. “Chi è”, dissi, e comparve un uomo tutto nero, coperto di cenere, che tossiva e piangeva ricurvo; “castello conquistato, famiglia prigioniera”, disse ansimando, e cadde a terra come morto. Corsi da lui e lo scossi; poi gli misurai i battiti del polso. “È morto”, dissi. “Bene”, rispose Justino, “ora ce ne possiamo andare”. “Bisogna seppellirlo”, gli dissi. “lo faccia Lei, se vuole”, mi rispose. Nonostante il senso di colpa, lasciai lì il morto e salii in camera. “Ce ne andiamo!” gridai a Nìnive da fuori la porta. Aprì subito. “Sul serio?”, mi domandò. “Sì”. Dopo quindici minuti, tutti eravamo davanti al portone del castello. Nìnive era l’unica ad avere una valigia. “Cos’hai lì dentro?”, le domandai. Non mi rispose. “Vado a prendere la macchina”, dissi. “Non ci stiamo tutti”, disse Nìnive” e Justino e gli altri quattro si guardarono e guardarono me. “Sì che ci stiamo”, dissi, e andai a prendere la macchina. Arrivando sul lato del castello, vidi le tre colonne enormi e altissime di fuoco e fumo nero che, come comignoli giganti, spargevano il marciume che stava bruciando nei capannoni. Mi pareva che stessero crescendo e acquisendo solidità, di modo che già sembravano delle vere ciminiere. Entrai in garage, montai in macchina, chiusi bene la capote e la misi in moto. Arrivai davanti al portone del castello e Nìnive subito salì sul posto accanto al mio. Gli altri quattro saltarono dietro. Justino rimase fermo, a guardare. “Si sistemi dove può”, gli dissi. Guardò i quattro, poi noi due, e mi chiese: Mi fate spazio davanti?”. Anche se c’era spazio in abbondanza perché l’auto era larga, Nìnive gli disse di no, che andasse dietro. Brontolando, Justino salì dietro mentre gli altri quattro se la ridevano. Io non sapevo dove andare ma mi sembrò meglio non dire niente. Ad ogni modo, già solo fuggire dalla cenere sarebbe stato un bene; il resto si poteva vedere dopo. Così partii nella direzione che aveva preso Hugo con la sua truppa.
La cenere volava da tutte le parti e non mi faceva vedere niente. Ogni tanto bisognava scendere a pulire il parabrezza. Dopo cinque minuti di strada, la cenere era peggiorata; probabilmente a causa dell’umidità e dei mulinelli di vento, aveva iniziato a ispessirsi e a formare figure voluminose, come serpentoni di cenere che saltavano violentemente contro di noi e contro la macchina. Ed io, in realtà, non sapevo dove stessi andando. Comunque, continuai dritto, fino a che l’auto, con uno scoppio, si fermò. Scesi e vidi che i serpentoni si erano infilati tra le ruote, dentro il motore, nel tubo di scappamento… Quando annunciai che dovevamo abbandonare l’auto, Nìnive iniziò a insultarmi e questo incoraggiò Justino a insultarmi pure lui. Gli altri quattro, invece, sghignazzavano. “Cos’avete da ridere?”, domandò loro Justino, di colpo più irritato con loro che con me, ma quelli non risposero, perché erano concentrati a pizzicarsi e ad abbassarsi i pantaloni a sorpresa vicendevolmente. Questa cosa irritò tanto Justino che saltò loro addosso e iniziò a picchiarli. Io saltai addosso a Justino, anche se ci misi un po’ a controllarlo, tanto che due dei quattro avevano già la faccia insanguinata. Poi, dovetti convincere Nìnive a lasciare lì la sua valigia: “Possiamo portare solo armi e qualcosa da mangiare”, le dissi. E allora di colpo sentimmo un rumore prolungato e fortissimo che arrivava dal castello, ancora visibile: una montagna di cenere aveva coperto metà della costruzione e stava facendo crollare una delle torri. A lato, tre colonne enormi ed altissime di fuoco e fumo nero spargevano, come comignoli giganti, il marciume che bruciava nei capannoni e i capannoni stessi, che si bruciavano pian piano.
Capitolo 16
Mai mi sentii così vicino alla morte come in quei due giorni di camminata in mezzo alla cenere e ai serpentoni di cenere che, ogni volta più astutamente, ci saltavano in faccia e ci si infilavano sotto i vestiti. Quasi senza cibo e senza una goccia d’acqua, la nostra unica occupazione era lamentarci tutto il tempo. Nìnive, infatti, percorse praticamente tutto il cammino piangendo e lamentandosi di essersi cacciata in un ginepraio. Giustino, ad un certo punto morì soffocato da un serpentone che gli si infilò in bocca proprio quando un altro gli tappava il naso, e siccome non avevamo le pale, fummo costretti ad abbandonare il corpo, che comunque fu immediatamente sepolto dalla cenere. Dì lì in avanti, la paura della morte ci accompagnò lungo tutta la strada; anche lo spirito dei quattro soldati cambiò: ridacchiavano, però le risate duravano meno, come se ascoltandole si vergognassero. E fu poco dopo di ciò che, quasi vinto dalla situazione, m’inginocchiai a terra, appoggiai la testa sulla cenere e recitai, a voce alta, l’unica preghiera che avevo imparato da bambino: “Per favore, Dio, aiutami a superare le incongruenze”. Vedendomi e sentendomi Nìnive così come i quattro soldati vollero unirsi e mi pregarono di insegnar loro la preghiera. Mano nella mano, allora, recitammo: “Per favore, in questa incongruenza / ho questa preghiera inventata per te / buon Dio / soffriamo la decadenza/ ecc.”. Sulla fine, Nìnive svenne; per fortuna gli altri quattro si offrirono immediatamente di trasportarla. La portarono a due a due, facendo a turno, per quasi tre ore. Quando Nìnive si svegliò, li insultò, li accusò di averla palpata e giurò che non mi avrebbe parlato mai più per il fatto che mi ero permesso di farle questo. Comunque, mi parlò di nuovo due ore dopo, quando, uscendo da un tunnel molto lungo, angusto, ondulato e ben costruito che attraversava una catena montuosa, spuntammo in una prateria verde, con alberi da frutta e animaletti. Apparentemente, le montagne fungevano da barriera contro la cenere. Facemmo i salti di gioia, ci abbracciammo, cogliemmo la frutta, la mangiammo e ci tuffammo in un lago. Facemmo questo tutti e sei, i quattro soldati, Nìnive e io.
Io e Nìnive eravamo dentro al lago; i quattro soldati già erano usciti da un po’ per esplorare la zona. Allora la abbracciai, perché era ancora un po’ dura con me, e questo subito la ammorbidì: mi chiese scusa per avermi trattato male, mi abbracciò e mi diede un bacio. Allo stesso tempo, sembrava molto turbata ed era evidente che faceva uno sforzo enorme per rimanere tranquilla e, come dire, normale nel senso in cui lo era lei. Stavamo nel lago, in una cavità formata da pareti di pietra molto alte ed io le ricambiai il bacio una, due, tre volte, fino a che ci lasciammo trasportare dal desiderio. Poco dopo ci sdraiammo nudi e sfiniti su di una pietra liscia e lì, guardando in su, vedemmo qualcosa di strano che Nìnive identificò per prima: erano le testoline dei quattro soldati che ci guardavano. Allora Nìnive si mise a piangere e a gridare in preda ad una specie di crisi di nervi, io urlai ai quattro che scendessero subito e, rapido, passai i vestiti a Nìnive e mi misi addosso i miei. Quando comparvero dinnanzi a noi, Nìnive era ancora nuda, così urlai loro di girarsi e la coprii; poi li affrontai, mollai pure un ceffone a uno che pareva sul punto di ridere ma Nìnive già aveva lo sguardo perso nel vuoto e io mi accorsi che a me non cambiava niente: li stavo affrontando per lei; che ci avessero visto o che non ci avessero visto: che differenza faceva? In più loro mi spiegarono che non era stata loro intenzione quella di spiare: erano saliti su una collina fino ad arrivare su quella cresta e, guardando in giù, si erano sorpresi nel vederci lì ed erano rimasti a guardarci senza capire quello che stavamo facendo. Li lasciai e tornai da Nìnive. “Che ti succede, Nìnive?”, dissi, e fui sul punto, vedendola così, di chiamarla Nini. Lei non mi rispose. Allora provai deliberatamente ad essere più affettuoso e dirle “Nini”, ma non ci riuscii, perché qualcosa mi bloccava la gola. “Nìnive, che succede?”, le dissi di nuovo, ma lei guardava in parte. Non era arrabbiata né niente del genere: era completamente andata, disconnessa dalla situazione. Da quel momento, Ninive diventò un fantasma. O no, nemmeno era un fantasma: uno straccio vecchio, qualcuno che si lasciava portare in giro e fare qualsiasi cosa, di cui bisognava farsi carico, perché, da parte sua, non era capace di iniziativa alcuna, anche di una tanto fondamentale come l’alimentarsi. Non perché bisognasse imboccarla, questo no: ma ciò che si doveva fare era avvicinarle il cibo e dirle: “Mangia, per favore”. Allora lei, pian pianino e svogliatamente, mangiava un po’. Voleva, internamente, far sentire in colpa i quattro soldati, ma era forse giusto? Erano stati un po’ stupidi, questo sì, ma quanto avevano fatto non presupponeva in nessun modo la maniera in cui era andata a finire. A volte, agivano per pura inquietudine o curiosità, senza malizia. E dunque poteva colpevolizzarli per un effetto indesiderato e inimmaginabile di quanto avevano fatto? Mi pareva di no, e in qualche modo questa presa di posizione fece sì che mi affezionassi a loro.
Passammo vari giorni così, camminando per le praterie e le montagne, sempre attorniati da acqua e alberi da frutto. La cenere era rimasta definitivamente indietro e i nostri polmoni, a poco a poco, si ripulirono. Con le nostre armi cacciavamo animali e la carne l’accompagnavamo con insalate di verdure che ci risultavano una novità. I quattro soldati, ad ogni modo, parlavano a malapena tra di loro e, per di più, sempre sussurrando. Nìnive camminava, ma assente e disinteressata. Allora io avevo del tempo per pensare, e il fatto di camminare per luoghi piacevoli pensando iniziò a piacermi, e forse per questo non mi rallegrai tanto quando sentimmo rumori e urla lontane e vedemmo un palo con uno scudo affisso che avvisava che ci stavamo avvicinando a un castello. Non mi rallegrai nemmeno quando notammo che il disegno dello scudo era molto simile a quello del castello di Anìbal e riportava scritto il suo cognome. E nemmeno quando, a levarci ogni possibile dubbio sull’esito della battaglia di Hugo, apparve una donna nuda inseguita da un uomo che le andava dietro che riconobbi come uno dei nostri soldati; la donna rideva come una matta e l’uomo le correva dietro con evidenti pulsioni sessuali; solo che lui era grasso e zoppo e lei bellissima ed atletica, motivo per cui non l’avrebbe mai raggiunta se lei non l’avesse voluto. Poi sentimmo odore di marcio e giungemmo a un ponte che passava sopra a un fiume; era il ponte d’entrata al territorio del castello ma il territorio era così grande che il castello ancora non si vedeva. Quando ci sporgemmo sul ponte, vedemmo che il fiume era bloccato da una pila enorme di cadaveri decomposti. Tutti vomitammo meno Nìnive che non sembrava vedere né sentire nulla. E allora, oltrepassando il ponte, vedemmo due persone impiccate: un uomo e una donna. La faccia della donna non mi diceva niente ma, vedendo quella dell’uomo mi resi conto che gli impiccati erano il figlio di Anìbal e sua moglie. “Nìnive, questa cosa è orribile”, le dissi, ma lei non mi rispose. I quattro soldati rimasero seri, come se avessi detto loro che non bisognava ridere o, piuttosto, come se avessero visto qualcosa che non immaginavano fosse possibile. Continuammo a camminare e, sempre più spesso, incrociavamo dei soldati. E quando iniziavamo a vedere la punta di una torre del castello, un soldato mi riconobbe, gridò “è il re” e così facendo attirò altri soldati; quei soldati, circa otto, mi sollevarono su di una sedia e mi portarono, cantando, da Hugo; durante il cammino riuscii a vedere che il castello del figlio era molto diverso dal castello del padre: c’erano molte donne, alcune delle quali vestite in maniera molto sensuale; c’era una piscina olimpica enorme; c’erano anche luoghi di svago, sportivi, ecc. e molti bambini che giocavano; ovvero: c’era moltissima gente, centinaia di persone che andavano da un posto all’altro e facevano cose differenti, come…
I soldati mi misero giù in mezzo alla moltitudine che si era unita a loro durante il cammino; la moltitudine gridava “viva il re” e, alcuni, “a morte i porci schiavisti”. E non tutti quelli che gridavano erano i nostri vecchi soldati: vari erano del castello del figlio di Anìbal, cioè dei nuovi schiavi liberati. Questo mi fece piacere. Hugo uscì dalla folla saltellando e mi abbracciò. La gente gridò “viva il re e il Capitano Hugo”. Nell’abbracciarci ci dicemmo delle cose: io gli dissi “ti faccio i miei complimenti” e lui mi disse “ed io a te, re”; e io gli dissi “è incredibile” e lui mi disse “ci stiamo riuscendo”. Poi ci lasciammo andare, la folla si disperse applaudendo e rimasero solo, a parte Hugo, i quattro soldati che mi accompagnavano. Chi non c’era più era Nìnive. “Dov’è Nìnive?”, domandai ai quattro. Loro si guardarono, alzarono le spalle e mossero la testa in segno di no mentre allo stesso tempo rivolgevano in alto i palmi delle mani. “Davvero non lo sapete?”, chiesi di nuovo. Rimasero zitti. “Beh, cercatela, per favore”, dissi, e quelli se ne andarono di corsa. “Io non dico più ‘per favore’”, mi disse Hugo quando rimanemmo da soli. “Sono preoccupato, c’è molta gente e Nìnive era molto strana”, gli risposi. “Ciò che sta succedendo cambierà la storia”, disse lui. “E se non la trovo più?”, dissi io, rimanemmo in silenzio per un istante. E in quell’istante mi tranquillizzai e pensai che Nìnive dovesse essere da qualche parte e che sarebbe ricomparsa. Hugo mi domandò perché me n’ero andato dal castello di Anìbal. Gli spiegai rapidamente quanto era successo omettendo i disastri più gravi; vale a dire: non parlai quasi della cenere e gli dissi, invece, che il castello di Anìbal per me era segnato dall’idea di schiavitù. “Certo”, mi disse lui. Allora gli diedi a intendere che avevo appiccato il fuoco e, quando stava per domandare qualcosa, gli domandai io: “Ma la battaglia come è andata?”. “Ah, incredibile. Dei nostri ne sono morti solo tre, e due di queste tre morti sono avvenute dopo la battaglia, ancora non ho capito come. Degli altri ne sono morti sessanta o settanta”. “Davvero? Così tanti?”, domandai stupefatto. “Sì, è stato grazie alle radici, che hanno fatto un effetto incredibile: siamo diventati tutti come pazzi, fortissimi.”, mi disse. “Ma avete ucciso settanta persone?”, gli domandai impressionato. “Sì, ma non è stata colpa nostra. Il figlio di Anìbal, che mi pare si chiamasse… non mi ricordo il nome. Il figlio di Anìbal aveva promesso la libertà agli schiavi che combattevano contro di noi. Riesci a crederci? Lottare contro quelli che vogliono liberarti in cambio della promessa di liberarti…! Questa offerta l’hanno accettata quelli che sono morti; i restanti, che erano un centinaio, si sono uniti immediatamente a noi. Ci stavano aspettando, non so come avevano fatto a sapere. Credo che li abbiano informati quei ragazzi che stavano con noi e ti avevano chiesto il permesso di andare in città. Allora abbiamo vinto la battaglia subito, quasi senza combattere. Ma avevamo già mangiato le radici, e quando gli schiavi che si erano uniti a noi hanno consegnato quelli che avevano accettato l’offerta di…”. “Li avete fucilati?” domandai sconvolto. “No, no… in realtà non so cos’è successo. Ho perso il controllo in quel momento, e un momento dopo li avevano uccisi”. “Non posso crederci…Davvero avete ucciso tutti quanti?”. “No, il figlio di Anìbal e la moglie li hanno impiccati i loro ex schiavi”. “E i bambini”. “Non lo so”. “Come non lo sai? Hanno ucciso anche loro?”. “No, beh, credo siano nel bosco”, mi disse, e indicò il bosco. “Non li lasciano tornare”, mi disse Hugo. “I figli dei figli di Anìbal?”. “Sì”. “Ma allora sono vivi…”. “Sì, non abbiamo ucciso bambini…”. Ci fu silenzio e dopo gli dissi “E non potevate seppellirli?”. “Chi?”. “Quelli che avete ucciso: li ho visti lì, ammucchiati sotto il ponte”. Mi guardò stranito. “Non hai visto in che stato sono e che odore hanno?”. Io lo guardai allo stesso modo: “Chiaro, adesso sono in quello stato. Dico che potevate seppellirli prima che andassero in putrefazione”. Allora abbassò lo sguardo e mi disse: “Sì, lo so. Io ho proposto di buttarli nel fiume. Pensavo che la corrente se li sarebbe portati via. Ma pare che si siano arenati su di un tronco e abbiano iniziato ad ammucchiarsi, proprio sotto il ponte”. “Bene, ordinerò che li seppelliscano”. “No, ti prego. Metti in dubbio la mia autorità così! Io ho già detto a tutti che non li avremmo seppelliti e che se lo meritavano per il fatto di essere dei traditori!”. La mia risposta fu “non mi interessa, bisogna seppellirli”. Allora uscii per radunare gente: in piedi su una pedana gridai “ho bisogno di volontari per un lavoro”. Subito mi si avvicinarono decine di persone, quasi tutti del castello. Approfittai per dire che ero orgoglioso di quello che stavamo ottenendo, che stavamo assistendo al primo passo per la liberazione definitiva di tutti gli schiavi del pianeta e che niente ci avrebbe impedito di proseguire ancora oltre. Tra i volontari c’erano i quattro soldati che erano arrivati con me. Domandai loro se avessero incontrato Nìnive, anche se, già dalle loro facce, mi ero reso conto di no. Misi insieme il gruppo e spiegai loro cosa bisognava fare. All’inizio si rifiutarono e l’unica maniera di convincerli fu assicurare che io avrei lavorato con loro. Alcuni, ad ogni modo, desistettero, pregandomi di non castigarli per essersi negati. Dissi loro che erano liberi, che potevano fare quello che volevano, anche non fare quello che era il loro bene. Quando dissi questo, se ne andarono anche degli altri. Siccome non c’era un cimitero, ne fondai uno, dietro al castello; lo chiamai “Il finale”, e mandai a intagliare nel legno un cartello enorme. Quando arrivammo al ponte, guardai rapidamente in mezzo ai corpi; per qualche motivo avevo paura di trovarvi Nìnive. Era così strana e vulnerabile che mi pareva possibile che si fosse ammazzata. Il che mi inquietava abbastanza, ma siccome in realtà pensavo che stesse lì in giro, non mi angosciava del tutto. Pensai questo: se ha bisogno di un po’ di tempo che se lo prenda; se non vuole più stare con me, me ne cerco un’altra, che qua ce ne sono molte e più belle.
Scendemmo verso il fiume lungo l’argine. Arrivando sotto vomitammo in vari. L’odore era insopportabile e i corpi erano molto più decomposti di quanto credessi. “Dai ragazzi, che quello che stiamo facendo è la cosa giusta”, gridai e mi avvicinai con un sacco al primo corpo. Questo li incoraggiò e nell’arco di un ora tutti i corpi erano insaccati. L’odore, comunque, rimaneva e dopo aver caricato i cadaveri putrefatti ne rimanemmo impregnati. E proprio quando iniziavo a pensare a come avremmo trasportato i corpi insaccati fino al cimitero, che era a cinquecento metri, comparve Hugo alla guida di un camion. “Viva il Capitano Hugo!”, gridarono tutti, e lui scese e ci aiutò a caricare i corpi sul camion.
Una volta al cimitero, discutemmo: Hugo voleva scavare una fossa comune; io volevo verificare i nomi di tutti e seppellirli con una lapide sopra. Io accettavo che il rito fosse un unico per tutti i morti ma Hugo anche su questo aveva un’opinione differente: non ci doveva essere un rito. Fui sul punto di dire “sono il re e decido io”; fortunatamente feci un’altra cosa: radunai la maggior quantità di gente che riuscii e spiegai i due punti di vista in un discorso emotivo sul diritto degli ultimi schiavi che morirono ingannati: “Hanno diritto ad una sepoltura degna, e questa è l’unica cosa che calmerà i loro fantasmi”, dissi, e alcune donne piansero. Hugo, poi, parlò della “repulsione” che provava verso i “traditori” e il suo discorso avrebbe potuto funzionare se non fosse stato per uno dei quattro soldati che erano arrivati con me, che fece una battuta: quando Hugo disse “mi provocano repulsione”, lui gridò da in mezzo la folla: “è perché sono putridi”. Allora tutti risero e iniziarono a gridare in coro. “In-ter-rateli”. Così si decise e così fu fatto. Scavammo tombe profondissime; adagiammo i corpi con delicatezza e riempimmo le fosse di pesanti pietre e di terra. L’attività distrasse tutti dall’odore putrido. Il rito comune fu commovente, soprattutto per le cose emozionanti che si dissero: parlò la moglie di uno, l’amico di un altro, il figlio di un’altra… Ognuno dei morti aveva qualcuno che ne sentiva la mancanza.
Capitolo 17
Il giorno dopo, mi svegliai nella mia nuova stanza, che era la stanza dei padroni precedenti ma completamente rifatta e ridecorata e la prima cosa che vidi fu la colazione sul comodino. Avvicinai la mano alla teiera e sentii che era calda. Mi alzai e aprii la finestra. La giornata era gradevole, né calda né fredda, e sotto, nel giardino, centinaia di persone camminavano su e giù: donne con figli, coppie di innamorati, gruppi di uomini. Un po’ più lontano, nella piscina da nuoto, molta gente giocava e si divertiva. E più lontano, negli spazi ricreativi, varie persone saltavano e correvano; guardai verso il bosco: un gruppo di ragazzini tirava pietre contro due bambini e una bambina che si nascondevano tra gli alberi. Erano i figli dei figli di Anìbal. Pensai che non fosse bello, e di dover mettere a posto quella situazione, ma non sapevo come. Quei ragazzini, cresciuti come schiavisti, tra tutti i lussi e i capricci, non sarebbero stati bene con noi. Allo stesso tempo però erano molto piccoli e c’era anche la possibilità che si adattassero rapidamente. L’altra opzione era non fare niente: in quel caso probabilmente sarebbero morti; se no, si sarebbero trasformati in selvaggi. Pensai alla bambina selvaggia e il mio animo si oscurò e, proprio in quel momento, bussarono alla porta. Pensai a Nìnive, se l’avevano trovata, viva o morta. Dissi “avanti”, ed entrò un soldato per informarmi che il Capitano Hugo voleva vedermi urgentemente nella sala da pranzo. Hugo era rimasto un po’ risentito per l’esito del rituale ed il suo errore di calcolo che era stato grave: vedere gli ingannati come dei traditori.
Scesi e mi servirono di nuovo la colazione ma stavolta era fin troppo prelibata, evidentemente era la colazione che usavano fare i padroni di prima. “Mi hai ordinato tu questo?”, chiesi a Hugo. “No, è l’usanza di qui”, mi rispose. “Che vuoi dire? Tutti fanno colazione così?”, insistetti. “No, credo di no”, mi rispose. “Allora non va bene”, dissi furibondo, e buttai per terra la colazione con rabbia. Subito comparvero quattro serve giovani. “Per prima cosa”, dissi loro “voi non siete più delle serve. Secondo, voglio fare la stessa colazione che fate voi”. “Va bene”, mi disse una con un sorriso molto attraente e sornione e, subito, mi portò del tè con del pane. “Perfetto, grazie”, dissi, ma allo stesso tempo mi dispiacque non avere in piatto almeno una delle cose della colazione precedente. “Voglio parlare di un paio di cose con te”, mi disse Hugo. “Tu non fai colazione?”, gli chiesi. “Sì, l’ho già fatta”. “Ah”. “Allora due cose. La prima è una che mi preoccupa. Voglio assicurarmi che non seppellirai gli impiccati”. “Cosa?”. “Proprio così, che non vorrai seppellirli”. “Ah, beh, sta bene… suppongo…”. “Come suppongo?”. “Sì, perché penso che prima o poi bisognerà seppellirli”. “No!”. “Perché?”. “Perché io ho detto a tutti che li avremmo lasciati marcire”. “E perché hai detto questo?”. “Perché mi è sembrata una buona immagine”. “Sì, forse… ma allora? Vuoi lasciare gli scheletri lì per sempre?”. “No, no”. “Beh, allora bisogna fare qualcosa”. “Per esempio?”. “Forse un rituale diverso che rafforzi l’immagine che hai proposto”. “Può essere…vabbè la seconda cosa adesso, volevo dirti che Calambra…”. “Calambra?”, gli domandai. “Sì, quello che ti ho presentato al castello, quello bassetto che ho messo come vice al comando”. “Ah, sì”. “Beh, Calambra partirà domani alla volta di un altro castello, con una truppa di cento soldati”. “Wow! Benissimo”. “Sì, sì, è in parte un’idea sua.”. “E che castello?”. “Uno che sta qua vicino, più grande di questo”. “Bene, perfetto. E non fanno delle esercitazioni?”. “Sì, stanno dietro al castello, poi andiamo a vederli. Molti vogliono conoscerti”. “Perfetto”. “C’è una terza cosa”. “Non erano due?”. “Sì, mi sono confuso… beh, comunque la terza è che c’è un problema con uno dei quattro uomini con cui sei arrivato”. “Ah, sì?”. “Sì”. “E qual è il problema?”. “Non ho capito bene ma sembra che uno di loro abbia tentato di violentare o abbia violentato, o abbia ferito tentando di violentare oppure abbia ferito tentando di fare qualche altra cosa a un altro uomo”. “Quando, dove?”. “Ieri notte, durante un falò che hanno fatto per festeggiare il tuo arrivo”. “E quindi?”. “Beh, il problema è che sembra che in questo castello gli schiavi fossero castigati permanentemente per qualunque motivo e allora adesso c’è molta gente che chiede che venga castigato”. “Sul serio?”. “Sì, ma nemmeno solo questo: vogliono che lo uccidiamo, che lo fuciliamo, e certi addirittura chiedono che fuciliamo tutti e quattro perché non sono sicuri di quale sia stato”. “Sul serio? Beh, non lo faremo e manda a dire che chiunque tocchi uno dei quattro soldati lo cacceremo dal castello. E che gli dicano anche che nessuno ha il diritto di uccidere nessuno. No, che non dicano questo: che dicano che nessuno può uccidere nessuno così, come se fosse una legge, e che ora non sono più schiavi e ognuno è responsabile delle sue azioni”. Hugo mi guardò come se non capisse: “Non posso mandar a dire questo…”. “Perché?”. “Tu non capisci, se non lo uccidiamo noi lo uccideranno loro, e sono molti, e non possiamo cacciarli tutti dal castello”. Rimasi zitto e poi gli dissi. “Va bene, mi verrà in mente qualcosa… Per il momento porta qui quei quattro e dì loro di nascondersi nella mia stanza”. “Nella tua stanza?”. “Mmm… No, meglio di no, in un’altra. Però comunque di nascondersi”.
Hugo mandò qualcuno a fare queste cose e dunque uscimmo a vedere i soldati che si stavano preparando per la battaglia. Era uno spettacolo impressionante. “Questo sì che è un esercito”, dissi a Hugo. “Capitan Hugo! Re!”, ci urlò Calambra e si avvicinò di corsa. Era più basso di quello che mi ricordassi, ci arrivava appena alla cintura, ma aveva una voce grossa e forte, dal volume alto, che risultava perfetta per coordinare i cento soldati. “Mi pare bene”, dissi a Calambra. “Grazie, abbiamo lavorato molto sodo”. E dopo aver detto questo tornò indietro. Gridava loro: “avanti”, “riposo”, “serrare”, “giro nero”, “silenzio”, “tip”, e con ognuna di queste parole i cento facevano qualcosa di molto preciso allo stesso tempo. Sembrava una coreografia come quelle che… In fondo c’erano quelli con le armi strane ma erano di più della volta precedente. “E quelli?”, domandai a Hugo. “Ah, non te lo immagini, con quelle armi fanno delle cose incredibili”. Ce ne andammo contenti. Calambra gridò “chau” e i soldati fecero un salto tutti insieme.
Dissi a Hugo che quella notte avremmo salutato i soldati con una festa, e che in questa festa avremmo bruciato gli impiccati. Gli sembrò una buona idea.
Capitolo 18
Quando quella notte, all’apice della festa, bruciammo i corpi, che avevano un odore terribile, le ceneri e la puzza ci obbligarono a spostare i tavoli e le sedie e a trasferire la pista da ballo e il palco dei musicisti. “Non è stato un granché”, mi disse Hugo. “Forse no”, gli risposi mentre vedevo che il vento trasportava le ceneri in direzione del bosco, di modo che esisteva la possibilità che la cenere dei padri morti ricadesse sulla pelle dei figli vivi. L’immagine m’inquietò, ma non solo l’immagine: m’inquietò la cenere e soprattutto il rendermi conto che, pensando al rito, non avevo tenuto conto del fatto che sarebbe comparsa cenere; questa disattenzione mi preoccupò: se riuscivo dimenticarmi di un fatto come quello, potevo tranquillamente dimenticarmi di molte altre cose importanti. Comunque, le conseguenze dell’errore non erano state gravi e la festa era un successo: centinaia di persone ballavano, bevevano, ridevano…In quel momento mi si avvicinò una ragazza. Era la stessa ex serva che mi aveva sorriso sorniona a colazione. La salutai e lei mi offrì una bibita che mi diede coraggio e mi eccitò, motivo per cui continuai a berla per tutta la notte, sempre più vivace ed eccitato. In quello stato, raccontai a Hugo un po’ di più riguardo ciò che era successo nel castello e a quando avevamo bruciato i capannoni, pur dando pochi dettagli ed essendo piuttosto vago e ambiguo, di modo che varie cose che dicevo sembravano metafore: “bruciare ciò che mi causava dolore”, “la cenere della povertà ci impediva di vedere il sole”, ecc. E quando Hugo volle saperne di più, forse anche lui galvanizzato dalla bibita, invece di rispondergli, iniziai a lamentarmi per la storia di Nìnive.
“Beh, forse non era così adatta a te”, mi disse. “Che dici? Era perfetta, andavamo molto d’accordo, ci volevamo bene…” gli risposi. “Va beh, ma a dire il vero…”. “Cosa?”. “No, niente”. “Dimmi, Hugo”. “No, non importa. Dico solo che forse non era una ragazza poi così brava, non lo so…”. Dovetti insistere parecchio ma Hugo finì per confessare che Nìnive aveva dormito nel suo letto varie volte. “Dormito? E nient’altro?”. “No, vabbè, sai com’è…”. “Vuoi dire che…?”. “Sì, perdonami”. Lì finì quella conversazione, che mi alterò e fece sì che mi mettessi a bere senza più controllo. E allora, a un certo punto mi intromisi in un gruppo che stava parlando di un qualchecosa. Vedendomi, il gruppo fece silenzio immediatamente. “Dai, parlate tranquilli”, dissi loro, ma non dissero nulla e mi guardarono con compassione, perché ero molto ubriaco. E non so come successe, credo che qualcuno mi fece una battuta innocente che mi diede fastidio e io, forse cercando di stabilire i confini simpaticamente, gli diedi una testata sul naso che mi annebbiò la vista e mi fece cadere per terra. Ci fu silenzio e quando mi alzai in piedi vidi l’altro svenuto, con il naso spaccato e la faccia ricoperta di sangue. Hugo arrivò di corsa e mi acciuffò per le spalle, ma io mi liberai e gli gridai “a me non mi trattiene proprio nessuno: sono libero” e me ne andai camminando fino a perdermi nel bosco.
Capitolo 19
Mi svegliai non sapevo nemmeno io dove, circondato dagli alberi. Era giorno. Accanto a me dormivano tre bambini un po’ sporchi e molto piccoli. Allora mi ricordai molto vagamente e in maniera frammentata che avevo corso e giocato con loro per tutta la notte e che erano i figli del figlio di Anìbal. Mi alzai in piedi con cautela per non svegliarli. Mi ricordai di quello che era successo la notte prima; mi toccai la fronte e sentii un bernoccolo. Pensai alla possibilità di riportarli indietro al castello, ma la scartai subito. Camminai per dieci minuti e uscii dal bosco. Sbucai a pochi metri dalla piscina olimpionica. Anche se mi sentivo ancora un po’ stordito, mi avvicinai al bordo; tutta la gente che c’era dentro fece silenzio e mi guardò. Allora, in mezzo a un brusio che ripeteva “il re… il re… il re…”, scivolai e caddi dentro la piscina, e anche se iniziai ad annaspare e a bere acqua, tutti mi guardavano senza far nulla. Gridai “aiuto, aiuto”, e proprio quando stavo annegando, una mano mi afferrò per i vestiti, mi sollevò in aria e mi sdraiò per terra, a pancia in su. Avevo gli occhi chiusi e, per qualche motivo, non potevo né muovermi né parlare; all’improvviso sentii una bocca sulla mia bocca, aria che mi gonfiava i polmoni e una pressione sul petto, e allora sputai acqua. Quando aprii gli occhi, una ragazza mi guardava da vicino. Intorno a lei, molta gente sussurrava. “Stai bene?”, mi domandò la ragazza. “Sì”, le dissi e, quando quella sorrise, mi resi conto che era la ex serva che mi aveva portato la colazione e che mi aveva offerto la bibita la notte prima. In vari mi aiutarono ad alzarmi. Quando fui in piedi, tutti gridarono: “Viva il re”. Fu un grido contenuto: mi amavano ancora, ma adesso avevano anche un po’ paura di me.
Quando, aiutato da questa ragazza che si chiamava Sumenela, arrivai al castello, già mi sentivo bene. Sumenela si congedò e, vedendola che se ne andava, sentii che mi piaceva e che era di molto superiore a Nìnive in tutto, e che in realtà qualsiasi ragazza era meglio di Nìnive e che era una fortuna che l’incantesimo si fosse dissolto di colpo grazie a quello che Hugo mi aveva raccontato. Pensai di sedurre Sumenela ma, mi resi conto in quel momento che, senza l’illusione di Ninive, tutto faceva lo stesso e non avevo bisogno di alcuna donna. Andai a vedere i soldati dietro al castello. Chiamai Calambra e gli domandai a che ora sarebbero partiti. “Di sera, quando tramonta il sole”, mi rispose. “Perfetto”, gli dissi, “voglio chiederti di portare con te i quattro soldati che sono arrivati con me. Sono uomini validi che…”. “No…Ti prego…”, mi interruppe lui. “Che c’è?”. “No, niente, va bene, me li porto ma le devo chiedere una cosa”. “Dimmi”. “Abbiamo varie radici che abbiamo raccolto nei dintorni ma sono diverse da quelle che c’erano nell’altro castello, e questo un po’ mi preoccupa”. “Vuoi che ci dia un’occhiata?”. “Sì, ti prego”. Allora mi prese da parte e me le mostrò. “Che belle”, dissi. Alcune erano rosse, pelose e appiccicose, morbide e carnose al di fuori ma con un bastoncino molto sottile all’interno, come un osso che si riusciva a sentire schiacciandole; sembravano di un altro pianeta e forse lo erano. Erano simili, ma non esattamente uguali alle precedenti. Ce n’erano anche delle altre blu, con dei punti simili ad occhi nella parte superiore e gambette come di uccello alla base. Altre, più fine, sembravano un mazzo di filamenti di colori fluorescenti. Ce n’erano alcune che erano come una palla nera, un po’ morbida, e altri che parevano dei vermi giallognoli come quelli che spuntano nei cadaveri. Poche, infine, sembravano muoversi. “Quelle non sono radici”, gli dissi. Lui le afferrò, le guardò con attenzione, mi disse che era vero, non erano radici. “E allora cosa sono?”, mi domandò. “Non ne ho idea, nel dubbio buttale”. Quando le buttò per terra quelle si infilarono rapidamente sottoterra. Gli dissi allora che quelle rosse erano le più simili ma che non ero sicuro e gli proposi di provare a combattere senza le radici. “No, no, è impossibile. Non solo per me ma anche per gli altri: pensano di aver vinto grazie alle radici e che senza le radici non abbiamo nessuna chance”. “E tu cosa pensi gli?”, le domandai. Mi guardò: “Io penso la stessa cosa… e Lei?”. “È possibile… Va bene, mangiate quelle. Le altre me le porto via, le voglio analizzare meglio”. Calambra annuì e mi disse che più tardi qualcuno le avrebbe separate e portate, già lavate, nella mia stanza. “Bene, buona fortuna a voi”, gli dissi. “Grazie, andrà tutto bene”. “Non ho alcun dubbio”. E mi congedai contento delle radici e di aver risolto la questione dei quattro soldati problematici e strani che ad ogni modo ormai mi stavano simpatici. Andai a cercare Hugo e gli dissi che quello che mi aveva raccontato non mi importava. “Ufff…per fortuna! Mi ero preoccupato…”, mi disse lui. Gli dissi di no, che aveva fatto bene a dirmelo e gli domandai di Idomenea. “Ah, benissimo. Sembra che sia incinta”. “Davvero? Ed è tuo?”, gli domandai. “Sì, certo, che vorresti dire?”, mi rispose, tra lo scocciato e il preoccupato. “No, chiaro, non volevo insinuare niente, era solo una domanda”.
La mia domanda era stata senza cattive intenzioni, ma l’ispirazione della domanda era stata la vendetta. Questa rivincita mi sembrò sufficiente e decisi di dimenticarmi di quella storia. E allora, non sapendo che fare, andai a fare un giro. Camminai parecchio, lungo la strada salutai molta gente e, senza rendermi conto, arrivai al ponte e guardai il fiume: era pulito e la puzza se n’era quasi andata. Questo mi mise di buon umore. Camminai un altro po’ e salii su un monticello. Guardai la strada attraverso cui eravamo giunti al castello e pensai molte cose; soprattutto pensai a Nìnive. In lontananza si vedeva una barriera di montagne, una specie di piccola catena montuosa. Erano le montagne che avevamo oltrepassato grazie a una galleria. La cenere era rimasta dietro quelle piccole montagne. Sopra i monti il cielo era grigio e pensai alla pioggia, ma subito dopo pensai alla cenere e guardai meglio e mi sembrò di vedere che il cielo aveva dei punti neri, delle macchie, che parevano in movimento. Poi mi sembrò di no; era solo un cielo annuvolato e allora pensai, non so perché, che se avessimo fatto le cose per bene la cenere non sarebbe riuscita ad avanzare. Scesi dal monticello, feci un paio di passi, arrivai al ponte sul fiume, guardai l’acqua limpida che scorreva e non potei evitare di dire a voce alta: “Che noia”. E mi stupii nel dirlo.
Capitolo 20
Quando entrai nella mia stanza, vidi la borsa di radici appoggiata sul mio letto. La vuotai a terra e le guardai con attenzione. Ce ne erano alcune blu, con dei punti simili ad occhi nella parte superiore e gambette, come di uccello, alla base; altre più fine, sembravano un mazzo di filamenti di colori fluorescenti; ce n’erano anche altre che erano come una palla nera, un po’ morbida; quando schiacciai una di queste con un minimo di forza, la scorza della palla si crepò e iniziò a uscire un succo nero con un odore molto forte; quelle che sembravano vermi giallognoli come quelli dei cadaveri le rimisi nella borsa, perché mi facevano schifo e poi misi via anche le palle perché l’odore mi stava nauseando. Guardai dalla finestra e vidi Hugo che parlava con Idomenea. “Hugo, Hugo, vieni”, gli gridai. “Che succede?”, mi domandò. “Vieni, vieni veloce”, insistei e lui allora diede un bacio a Idomenea, che ancora non sembrava incinta, ed entrò nel castello. Bussò alla mia porta. “Entra, entra, dai”. Quando entrò indicai le radici sul letto e gli dissi “guarda”. “Che proprietà hanno? Sono quelle che abbiamo raccolto io e Calambra?”, mi domandò. “Sì… come che proprietà hanno? È quello che dobbiamo verificare”. “Cosa?”. “Dobbiamo provare quelle radici e verificare l’effetto che fanno”. Hugo mi guardò nervoso e probabilmente senza capire il mio entusiasmo. Sentendomi osservato a quel modo, mi resi conto che quell’entusiasmo non aveva senso nemmeno per me. Comunque sia, l’idea di provare quelle radici mi eccitava, così insistei fino a quando Hugo non acconsentì. “E ci faranno male?”, mi domandò in un ultimo tentativo di rimandare ciò che doveva arrivare. “Male? Mmm… Non ci avevo pensato… No, non ci faranno male”. “Come lo sai?”. “No, non lo so. Beh, se non vuoi, non c’è problema”. Hugo rimase pensoso e dopo aver guardato il soffitto per un minuto, disse con un sorriso: “Eddai, proviamole”.
Non so quale fu l’ordine né niente. Ciò che posso dire è che con la prima radice, che era blu, con dei punti simili a occhi nella parte superiore e gambette come di uccello alla base, entrai, o entrammo, in un buco nero in mezzo al niente, e che questa sensazione durò solo pochi minuti, anche se è difficile saperlo con esattezza, e dopo di ciò mangiammo di nuovo quella azzurra, sebbene io forse aggiunsi alcuni filamenti fluorescenti e allora rientrammo nel buco nero, che era il nulla, ma un nulla dove qualcosa sembrava prepararsi a comparire; ciò, almeno, era quello che io sentivo. Non capivamo, ma allo stesso tempo l’effetto ci creava curiosità, così le mangiammo di nuovo e, questa volta, uscendo dal buco nero, ci guardammo spaventati perché, anche se la sensazione era che, mentre stavamo nel buco nero il nostro corpo non facesse niente, uscendo dal buco vidi che Hugo era scalzo e che io ero salito sul comodino. “Che è successo?”, domandai. “Non lo so, ma sembra che ci siamo mossi”. “Cioè sembra che, mentre stiamo nel buco nero, in mezzo al nulla, il nostro corpo sta qui e si muove…”. “Sì, sembrerebbe così”. Aspettammo un po’, ma non successe niente: l’effetto era breve. Questa brevità ci tranquillizzò, così che a quel punto, non so perché, la provammo di nuovo e, stavolta, uscendo dal buco, Hugo era nudo al mio fianco e io mi ero tolto la camicia. “Questa cosa non va bene”, dissi, e subito mi fagocitò il buco nero, e quando ne uscii, Hugo non c’era e le radici nemmeno. Guardai la stanza e mi sembrò surreale, o forse no, surreale no, ma una stanza diversa, che aveva continuato a trasformarsi mentre io non ero lì. Allora entrò Hugo e mi disse che uscendo dal buco nero si era trovato in giardino. “Non mi piace questa cosa”, aggiunse. “Nemmeno a me perché non sembra finita qui”, gli dissi mentre entravo di nuovo nel buco nero; quando uscii non solo non c’era Hugo ma la finestra era rotta. Mi affacciai e guardai verso giù. Hugo era a terra, circondato da vetri rotti. Scesi di corsa, gridando, ma lungo il cammino entrai di nuovo nel buco nero e, quando ne uscii, mi trovai nella piscina, da solo, circondato da gente che mi guardava. “Stai bene?”, mi domandò una ragazza che riconobbi in Sumenela. “Sì, sì, perfettamente”, dissi, e uscii dalla piscina. Sumenela allora mi avvolse in un asciugamano e si offrì di accompagnarmi nella mia stanza. “Che è successo?”, le domandai. “Non lo sai?”. “No”. Lei mi guardò con un misto di pena, timore ed istinto materno e mi disse che mi ero buttato in piscina gridando che una mano mi ci trascinava tenendomi per il collo. “Sul serio?”, le domandai. “Sì, e non solo: una volta nella piscina, quando tutti erano scappati fuori spaventati, hai iniziato a dire che tutti dovevamo afferrarci alla maniglia”. “La maniglia? Che maniglia?”. “Non lo so, gridavi questo. Suppongo che ti riferissi alla maniglia per la quale ti teneva la mano che ti aveva trascinato nella piscina”. “Ah, dissi, e allora entrai di nuovo nel buco nero, e quando uscii ero a letto, nudo, con Sumenela accanto, anche lei nuda, che mi sorrideva. “Che è successo?”, le domandai. “Come?”, mi rispose. “Ho chiesto che è successo”. “Davvero non ti ricordi niente?”, mi domandò lei, visibilmente offesa. “Più o meno”, dissi, anche se in realtà non mi ricordavo niente. “Sentiamo, cosa ti ricordi?”, mi domandò e allora mi tuffai di nuovo nel buco nero. Quando uscii, ero sempre nella stanza, ma stavolta seduto per terra, che contemplavo una tazza. “Non mi sembra”, disse Sumenela, che era seduta sul letto vestita, e fumava una pipa enorme. “Cosa?” le domandai. “Il manico, dico, io non ho nessun manico”, mi rispose. “Che manico?”. “Basta con queste domande”, mi rispose. E allora guardai la tazza e guardai il manico e il manico mi sembrò un po’ strano. Entrai nuovamente nel buco nero; uscendone stavo di nuovo seduto accanto alla tazza, ma ora la tazza era rotta e il manico era staccato; tra le mani avevo un blocchetto e una biro; sul foglio io avevo scritto – era chiaro che fosse la mia calligrafia – quanto segue: “Il manico mette a contatto l’interno della tazza con l’esterno della tazza; allo stesso tempo il manico è parte della tazza. Ma se togliamo il manico, rimane solo l’interiorità e la tazza è immaneggiabile”. Il testo mi risultava totalmente estraneo e allo stesso tempo molto familiare. Mi avvicinai a Sumanela, che era sempre sul letto, e le passai il blocchetto. “Che te ne pare?”. Lei lo lesse e disse che era molto bello, ma che non era molto originale, lei stessa aveva pensato cose del genere in certi momenti. “Beh, può essere”, le risposi, ed entrai di nuovo nel buco nero. Quando uscii, stavo sul ponte sopra al fiume. Per qualche motivo niente che riguardasse la questione del buco nero mi meravigliava troppo: né i cambiamenti di luogo, né ciò che facevo quando vi ero dentro, niente. Io ero due persone, ma allo stesso tempo ne ero una, e anche se non ricordavo nulla di ciò che faceva l’altro me, nemmeno questi mi risultava un estraneo, così come evidentemente io non ero un estraneo per lui, che esisteva grazie a me. Anche se tutto poteva anche essere visto al rovescio… Vidi il fiume che scorreva, si sarebbe potuto dire, briosamente. Poi guardai l’orizzonte: davanti a me la piccola catena montuosa era ancora coronata di ceneri, anche se, piuttosto, sembrava un cielo annuvolato. In quel momento mi domandai se le colonne di fuoco e cenere si fossero spente o se, invece, la cenere si stesse accumulando dietro alle montagne. Da lì, tornai camminando al castello. Sulla strada, incontrai Idomenea, che mi domandò come io stessi. Le dissi bene e le domandai se sapesse dov’era Hugo, e mentre lo dicevo mi ricordai di averlo visto a terra circondato da vetri e sentii una specie di brivido. Lei, vedendomi così, mi disse: “Non ti preoccupare che non racconterò niente a Hugo…”. La guardai. “Cosa? A proposito di cosa?”. Mi guardò: “A proposito di quello che abbiamo fatto”. “Cos’abbiamo fatto?!”, le gridai, guardando di lato per qualche motivo. “Non essere scemo…”, mi rispose accarezzandomi il braccio destro con sensualità. E lì entrai nel buco nero. Quando uscii io e Hugo stavamo seduti sul fondo di un pozzo. Gli domandai che ci facevamo lì e lui mi rispose: “Tutta la mia pelle è morta”. Ipotizzai che Hugo stesse nel buco nero in quel momento, e glielo domandai: “Che?” mi disse. “Mi sembra che tu stia nel buco nero, ripetei. Si mise a ridere: “No, no, io no, ma tu ne sei appena uscito”. “E tu? Che ci facciamo qua?”, gli domandai. “Non lo so ma a me è quasi finito l’effetto: entro molto poco e molto lievemente, così lievemente che il nero è grigio trasparente e riesco a vedere quello che faccio… vedo doppio… ma a te dura di più. Forse è per quei filamenti fosforescenti che ti sei mangiato”. Uscimmo dal pozzo con difficoltà: lui per primo, io dopo, con il suo aiuto. E ciò che vidi mi tolse il respiro: almeno venti corpi dissotterrati sparpagliati tra le tombe. “Cos’è questo?”, domandai. Hugo era pallido. “Suppongo che lo abbiamo fatto noi”, mi disse. “E lo dici così? È terribile!”, gli dissi furioso. “Sì…No, non mi sembra così grave”, mi rispose. “Non ti sembra?”. “No: prima stavano là sotto e adesso stanno qua. Da qualche parte stanno sempre, e sono sempre morti. Che differenza c’è?” Lo guardai, serio: “L’idea è che uno non li veda”. “Okey, sì. Ma anche se non li vedi ci sono lo stesso”, mi rispose con indifferenza. “Non è la stessa cosa”, gli dissi, e ci mettemmo a sotterrare i corpi ma non sapevano quale dovesse andare in ognuna delle fosse. “Fa lo stesso”, mi disse Hugo. “No!”, gli gridai. “Che differenza c’è?” mi domandò con curiosità genuina. Non seppi cosa rispondergli, così li sistemammo a caso. Volevamo finire prima che facesse buio; intanto temevamo di entrare nel buco nero nel mezzo del lavoro e che andasse a finire in un disastro. Alcuni metri più in là c’erano cinque tizi che guardavano. Li chiamai e chiesi loro di seppellire i morti che restavano, che noi dovevamo proseguire nella ricerca di qualcosa di molto importante. Appena dopo aver detto questo, entrai nel buco nero. Quando uscii ero nel bosco; in lontananza stava uscendo il sole. Sentii un fastidio alla schiena e tentai di grattarmi ma una struttura solida agganciata alla mia maglia me lo impedì. Me la levai: era un manico di cartone. “Uff, non ne posso più”, dissi a voce alta, e comparvero i figli del figlio di Anìbal. Ora erano più simili alla bambina selvaggia e questo mi dispiacque, ma allo stesso tempo mi fece piacere, perché significava che si stavano adattando a quanto gli era toccato. “A voi come sta andando?”, domandai loro. Quelli sorrisero e mi offrirono un pezzo di carne cruda. “Ah, grazie, dissi, perché mi resi conto che avevo fame. Mentre mangiavo il pezzo di carne, mi resi conto che ero scalzo e che avevo i piedi molto infangati. Evidentemente ero nel bosco da tanto tempo. Allora entrai di nuovo nel buco nero. Quando ne uscii, anche se mi stavo abituando al mio nuovo ritmo, rimasi sorpreso: ero di fronte a un lato del castello in cui gente su delle impalcature stava sistemando una cosa enorme che identificai come un manico: vale a dire, stavano mettendo un manico al castello. “Sembra che verrà bene, complimenti a Lei, è una grande idea”, mi disse un tipo molto grasso che mi stava accanto. “Grazie”, gli dissi, e lì notai che avevo in mano il manico della tazza che avevo rotto. Me ne andai nella mia stanza. Quando entrai non mi stupii vedendola tutta dipinta di nero. Sumenela non c’era, e questo mi fece pensare a Nìnive, e mi intristii. Era l’ora di pranzo e forse per questo qualcuno aveva lasciato un volatile cacciato e fatto al forno sotto una campana. Mentre me lo mangiavo, mi resi conto che non sapevo come sentirmi rispetto a cosa alcuna. Che ero stanco ma non avevo sonno; che mi mancava Nìnive ma allo stesso tempo non mi mancava; che volevo vedere Sumenela ma allo stesso tempo non volevo vederla; che ero annoiato ma allo stesso tempo sfinito da tante attività. Allora sentii che l’altro stava vivendo al posto mio: lui era stato a letto con Sumenela nei momenti importanti; lui aveva avuto tutta quell’evoluzione dal pensiero all’azione con il manico; sempre lui sembrava che avesse fatto qualcosa con Idomenea. E lì mi resi conto che forse il suo manico ero io, cioè che io ero colui che lo sosteneva e che il suo auspicio era disfarsi di me in qualche modo. In ogni caso, lui passava molto più tempo di me fuori dal buco, anche se poteva essere che lui non stesse mai nel buco ma da qualche altra parte e che il buco nero, il niente, fosse un posto creato apposta per me. E stavo pensando che probabilmente lui sarebbe ricomparso in un momento qualsiasi e io sarei entrato nel buco nero, quando sentii la voce di Hugo che mi chiamava. Mi affacciai alla finestra e non lo vidi. La giornata era gradevole, né calda né fredda, e giù in giardino, centinaia di persone si movevano da una parte all’altra: donne con figli, coppie di innamorati, gruppi di uomini. Un po’ più lontano, nella piscina olimpica, molta gente giocava e si divertiva. E più lontano, negli spazi di ricreazione, varie persone saltavano e correvano; guardai verso il bosco: un gruppo di bambini tirava pietre ai figli del figlio di Anìbal, che si stavano arrampicando sugli alberi. Hugo entrò nella stanza: “Oh, non mi hai sentito?”. “Sì, ma non ti ho visto là di sotto”. “Beh, ho una grande notizia: Calambra ha vinto, ora abbiamo un altro castello, che sembra sia enorme”. “Bene… Ed è morta molta gente?”. “Non lo so, so solo questo… Ma magari, che ne so…”. “Beh, bene”. A quel punto lui mi guardò: “Ma stai bene?”. “No, sto così così. Sono stufo marcio di questa cosa del buco nero”. “Ti sta durando ancora? Ufff”. “Sì, non si sopporta”. Allora ci mettemmo a parlare e scoprii che la sua esperienza era stata completamente diversa dalla mia: che, di fatto, la mia, oltre ad essere molto prolungata, era stata molto più dolorosa; a parte ciò, e questo mi allarmò, l’altro Hugo non era così diverso da lui. “Si vede che non sono così divertente”, mi disse. “Che vuoi dire?”, gli domandai. “Voglio dire che il divario tra te e l’altro te e maggiore del divario tra me e l’altro me”, mi rispose. “Non capisco, vuoi dire che…”. “Vabbè, cambiamo discorso”, mi interruppe. “Va bene”, gli risposi. “Guarda, ho trovato le moto dei guardiani del castello, che comunque sono morti, e ho pensato che potevamo andare a fare un giro fuori e…”. “Io non posso! Immaginati se poi entro nel buco nero e…”. “E cosa? Magari lui guida meglio di te”. “Sì, può essere…”. “Allora, vieni?”. “Va bene, andiamo”.
E andammo in moto, ci divertimmo molto e io non entrai mai nel buco nero, motivo per cui fantasticai sulla possibilità che l’effetto della radice fosse finito. Passammo attraverso ponti di pietra e castelli abbandonati; ci riposammo in paesaggi mozzafiato, parlammo dei nostri problemi ecc. E ad un certo punto, non so perché, mi misi a parlare del manico come se fosse una cosa mia. E Hugo ascoltò interessato e mi disse che gli sembrava ottimo; che aveva visto il manico che stavano mettendo al castello e gli era piaciuto; e che dovevamo in qualche modo trasformare questa scoperta teorica in qualcosa che potesse agire sulle persone a livello curativo. “Forse sì”, gli dissi, un po’ stranito dal suo entusiasmo.
Quando tornammo indietro, salii in stanza e feci una siesta dopo aver mangiato qualcosina. Tuttavia, non mi risvegliai a letto ma nel mezzo di un falò notturno, perché evidentemente durante la siesta ero entrato nel buco nero e mi ero alzato dal letto. Passata la sorpresa, mi intristii, perché davvero ero stufo dell’effetto della radice; ma la tristezza non durò più di dieci secondi perché io in quel falò dovevo presiedere a un rituale che, secondo un cartello, si chiamava “rituale del manico”. Hugo mi disse all’orecchio: “Forza, strappaglieli”. Allora mi resi conto che la gente che mi stava davanti aveva attaccato alla schiena un manico e che aspettava che io glielo strappassi. “OK!”, gridai e tirai forte il primo, e saltai dallo spavento perché dalla schiena della persona uscì sangue. I manici erano attaccati alla pelle; la ferita che restava era molto lieve, ma era pur sempre una ferita. Dovetti strappare i manici a sette persone e poi Hugo, che sembrava co-presiedere al rituale, li radunò e li lanciò nel fuoco. A quel punto tutti gridarono e le donne si tolsero i vestiti e gli uomini fecero lo stesso, cosicché anch’io dovetti spogliarmi ed entrai nel buco nero non appena vidi che tra le donne nude c’era Sumenela. Quando uscii dal buco nero ero sempre nello stesso posto e nel caos dei corpi nudi illuminati dal fuoco mi sembrò di vedere Nìnive e, proprio quando stavo andando a cercarla, entrai di nuovo nel buco nero. Dopodiché, uscii di nuovo e quello che vidi mi turbò profondamente. Scappai di corsa ed arrivai fino al bosco; mi sedei su un tronco crollato e dopo pochi secondi arrivò anche Sumenela. “Stai bene?”, mi domandò. “Sì, sì… No, no, questa cosa è insopportabile”. Eravamo nudi ma Sumenela aveva con sé una coperta abbastanza grande. “Vieni, copriamoci”, mi disse. E così, entrambi coperti dalla stessa coperta, ci addentrammo nel bosco fino a che trovammo uno spazio tra gli alberi. Lì ci addormentammo. Quando mi alzai la mattina dopo, molto stanco ma fiducioso di esser stato me stesso e di aver dormito difilato, lei, sorpresa che io non ricordassi niente, mi raccontò ciò che era successo: “A un certo punto della notte ti sei alzato e ti sei messo a correre; ho provato a inseguirti ma andavi velocissimo, così ho deciso di tornare ed aspettarti qui; dopo un po’ sei comparso con varie radici in mano; io mi sono arrabbiata e ti ho detto di buttarle via, perché poi non potevi lamentarti dell’effetto se continuavi a mangiarle; le hai mangiate comunque, con molta foga, e questo ti ha mandato fuori di testa e te ne sei corso via di nuovo; quando sei riapparso, più o meno un’ora dopo, eri con i figli dei precedenti padroni del castello; loro ti guidavano e ti dicevano cosa fare, e tu li ascoltavi; sembrava che avessi perso tutta l’energia e non smettevi di ripetere cose sui morti, sui morti che avevi visto, qualcosa del genere”. Allora mi accorsi che avevo le caviglie ferite e le mani ed altre parti del corpo molto sporche. Tutto si spiegava: l’effetto durava perché l’altro me mangiava radici ogni volta che poteva. Chiesi a Sumenela che mi legasse a un albero; lei all’inizio si rifiutò ma alla fine accettò perché, da quello che diceva, voleva stare con un uomo che fosse uno unico. Così, ottenendo che io e l’altro me facessimo la stessa cosa per un po’, vale a dire, stare legati a un albero, soprattutto evitando che l’altro mangiasse alte radici, mi curai: legato, entrai ed uscii varie volte dal buco, e Sumenela si occupò di darmi da mangiare e rinforzare i nodi di tanto in tanto; stando a quello che mi raccontò dopo, l’altro aveva tentato molte volte di farsi passare per me in modo da convincerla a liberarlo ma lei, mi spiegò, aveva avuto l’accortezza di distinguerci grazie a un “bagliore negli occhi e una piccola smorfia della bocca”. Il giorno dopo, di mattina, mi sentii pulito; aspettammo parecchie ore e, nel pomeriggio, già quasi sicuri che il buco nero faceva parte del passato, chiesi a Sumenela di liberarmi. Lei mi guardò con diffidenza, ma alla fine accettò. Andammo nella mia stanza e ci facemmo la doccia e ci vestimmo con vestiti appartenuti alla coppia reale.
Uscimmo per fare una passeggiata e la gente lungo il percorso, impressionata, veniva a salutarci e ci diceva: “re, regina”. In quel momento sentii che, anche se l’altro me se ne era andato, io avrei continuato a vederlo, perché ormai l’avevo conosciuto. E all’improvviso una donna si avvicinò a Sumenela e le diede un ceffone; Sumenela le rispose con un altro ceffone e allora le due iniziarono ad azzuffarsi; quando andai a separarle, la donna mi sputò in faccia. A quel punto mi resi conto che era Nìnive, anche se era ingrassata e si era tinta i capelli di rosso. “Che fai? Ti ripresenti così?”, le gridai. “Ah, chiaro, io mi ripresento!”, mi rispose. “E questa chi è?”, mi domandò Sumenela. “È Nìnive, la mia ex ragazza”, le dissi, e lei, con un gesto comprensivo, si fece da parte. Nìnive era indignata; io non capivo come potesse essere tanto indignata, ma quando mi raccontò quello che era successo dovetti darle ragione e chiederle scusa, perché era come se… E allora mi resi conto che dovevo decidere con quale delle due sarei rimasto: guardai Nìnive, guardai Sumenela e, senza esitare, anche se senza sapere bene perché non esitassi, me ne andai con Sumenela. Dietro di noi, Nìnive rimase a piangere. Quel giorno non successe molto altro. Qualcuno cercò di organizzare un rituale ma lo bloccai e dichiarai cancellati i rituali. “Sono stati un errore”, spiegai. Il manico del castello decisi di lasciarlo, perché non stava male e perché, comunque, l’idea non mi dispiaceva.
Capitolo 21
Il mattino dopo, mi svegliai e vidi la colazione sul comodino. Sumenela dormiva con la bocca aperta. Avvicinai la mano alla teiera e sentii che era calda. Mi alzai e aprii la finestra. La giornata era gradevole, né caldo né freddo, e sotto, nel giardino, centinaia di persone andavano da un posto all’altro: donne con bambini, coppie di innamorati, gruppi di uomini. Un po’ più lontano, nella piscina olimpica, molta gente giocava e si divertiva. E più lontano, negli spazi ricreativi, varie persone saltavano e correvano; guardai in direzione del bosco: un gruppo di bambini tirava pietre ai figli del figlio di Anìbal, che si stavano arrampicando sugli alberi, fuori dalla loro portata. Pensai di doverli aiutare, ma non mi venne in mente come. Quei ragazzini, cresciuti come schiavisti, tra tutti i lussi e i capricci, non sarebbero stati bene con noi. Allo stesso tempo però erano molto piccoli, e c’era anche la possibilità che il loro adattamento al bosco fosse permanente. Sarebbero stati felici? Pensai alla bambina selvaggia e pensando a lei il mio animo si oscurò, perché me l’immaginai grigia, coperta di cenere, secca e dura, sulla chioma di un albero. Questo pensiero mi fece fare colazione in fretta e uscire a passeggiare da solo. Appena mi vide, Hugo mi venne incontro di corsa. “Non è Nìnive quella che hai visto!”, mi gridò. “Come?”, gli dissi io. “Non è Ninive, è una pazza, un’imbrogliona!”, mi rispose ormai vicino a me, ansimando un po’. Infine, mi confessò che aveva visto il cadavere di Nìnive quando seppellivamo i morti per la prima volta. “Davvero? Lo hai visto?”, gli domandai. “Sì, sì, era lei”. “Sei sicuro?”. “Sì, sicuro, era lei…”. A quel punto mi sembrò che esitasse, così gli domandai di nuovo: “Sicuro-sicurissimo?”. Allora mi disse di no, che non poteva essere così sicuro, perché i corpi erano sporchi e in cattivo stato, tuttavia sì che era sicuro che la donna che si era presentata come Nìnive fosse un’imbrogliona. Andammo a cercarla e la trovammo facilmente, perché era diventata subito famosa tra i suoi vicini, che sapevano che quella donna non era Nìnive ma un’imbrogliona che mi aveva ingannato; uno di quei vicini, infatti, era colui che era andato a dire la verità a Hugo. La falsa Nìnive viveva in una baracca attaccata al castello, così attaccata che una delle sue pareti era una parete del castello. La chiamammo e uscì. Vedendola mi stupii di aver creduto a una bugia del genere: era grassa e rossa di capelli, e non assomigliava per niente a Nìnive. Volevo insultarla ma mi resi conto di non riuscirci, così feci un gesto a Hugo affinché ce ne andassimo immediatamente. Hugo voleva parlarmi della falsa Nìnive, ma io gli dissi che volevo fare due passi da solo e pensare a questa cosa, che mi faceva soffrire, anche se in verità non stavo soffrendo: volevo solo fare due passi tranquillo.
Camminai abbastanza; lungo il percorso salutai molte persone e, senza rendermene conto, arrivai sul ponte e guardai il fiume: era pulito e l’odore se n’era andato del tutto. O ero io che percepivo o ricreavo un odore inesistente? Mentre pensavo a questo, qualcosa scese lungo il fiume e s’incastrò proprio dove prima c’erano stati i corpi. Pareva un cadavere e rimasi di sasso vedendo come si incagliava tra le rocce e come immediatamente l’acqua iniziava a biforcarsi. Scesi di corsa e vidi che, effettivamente, era il corpo di un uomo sui quarant’anni. Lo tirai fuori dall’acqua e lo analizzai: era grasso oppure era gonfio; aveva i capelli lunghi e gli mancavano alcuni denti; e aveva un buco in testa che sembrava essere di un proiettile. Lasciai lì il corpo e corsi a cercare Hugo. Lungo il cammino, non so perché, chiesi a un ragazzino sui dieci anni di andare al fiume e far la guardia al corpo. Appena vidi Hugo, che stava raccogliendo dei fiori con Idomenea, iniziai a inveire. Quando ebbi finito lui mi domandò cosa fosse successo. “Come che è successo?”, gli gridai. “Sì, perché non capisco”, mi rispose con tono indignato. “Hai gettato di nuovo i corpi! Nel fiume, hai gettato di nuovo i corpi!”. “no!”. “Sì!”. “No!”. “Sì! Sì!”. “No!!”. Vedendolo così sicuro, mi venne il dubbio. Non è che potevo essere stato io, l’altro me, di nascosto, magari di notte? Portai Hugo fino al fiume. Quando arrivammo, il bambino stava indicando due corpi nuovi che si erano incastrati nello stesso punto dei precedenti. Guardai Hugo e dalla sua faccia fui sicuro che lui non aveva nulla a che fare con questi nuovi morti. Anche questi erano morti in seguito a degli spari; a uno mancava un braccio, a un altro avevano strappato, o in qualche modo aveva perso, i capelli in testa. Lo stavo osservando quando Hugo disse: “Uh! Questo è uno dei tuoi!”. “Cosa?”, gli domandai. “Guarda”. E lo vidi: uno dei morti era molto, molto simile a uno dei quattro soldati che erano arrivati con me e se ne erano andati con Calambra. “Arrivano da lì”, disse allora il ragazzino. “Cosa?”, domandammo io e Hugo all’unisono. “Che arrivano da lì”, ripeté indicando il fiume. “E lì cosa c’è?”, gli domandai. “Lì c’è l’altro castello”. “Questo fiume passa anche per l’altro castello?”, gli domandò Hugo. “Sì”, disse il bambino proprio quando vedemmo arrivare altri tre corpi che si incagliavano nello stesso punto, uno dopo l’altro, come se… Tornammo di corsa al castello. A tre uomini che incontrammo sulla strada chiedemmo che andassero al fiume a prendere i corpi, e che li portassero al cimitero. A un altro chiedemmo di andare fino al castello conquistato e verificare cosa stesse succedendo: per questo, gli assegnammo una moto. Quando ritornammo sul fiume vedemmo che la pila dei corpi era già abbastanza grande. “Che sta facendo quel Calambra?”, domandai, disperato. “Sembra che butti i morti nel fiume”, mi rispose Hugo. “Sì…”, gli dissi, pensando che questa cosa Calambra l’aveva imparata da Hugo, proprio mentre riconoscevo la faccia di un altro dei miei quattro soldati. Arrivammo al castello proprio quando la moto tornava indietro. “Quindi?”, gli domandammo tutti e due insieme. “Non riesco a descrivere quello che ho visto”, rispose l’uomo. “Cosa?”. “Che non ci riesco”. “Perché?”. “Perché è orribile”. “Molti morti?”. “Sì, molti”. “E cos’altro?”, gli domandai, e lì l’uomo cadde in terra e vidi che sulla schiena aveva un taglio lungo e profondo. Chiedemmo a una coppia che passava di là di occuparsi del ferito e ce ne andammo diretti al fiume. Sulla strada incontrammo molta gente che portava morti sulle spalle in direzione del cimitero: erano uomini, donne e bambini, sia i morti sia quelli che li trasportavano. Arrivando in riva al fiume vedemmo che la montagna di corpi era così alta che arrivava quasi al ponte e che, anche se c’erano molte persone che si davano da fare, era impossibile evitare che i cadaveri si accatastassero. “Brutto segno”, dissi a Hugo e, istintivamente, guardai in direzione della catena montuosa e vidi che il grigio era più scuro. Pensando che ci meritavamo il peggio, camminai ancora un po’ e salii su un monte abbastanza alto e lì sì che gridai, allora, perché vidi quello che sapevo avrei visto: la cenere aveva scavalcato la cordigliera e stava arrivando sul nostro versante. Una buona parte del paradiso che avevamo visto quando eravamo arrivati era già coperto di cenere. Non fui capace di calcolare quanto ci avrebbe messo esattamente a ricoprirci tutti, ma stimai che sarebbe bastato molto poco. Raccontai a Hugo quello che avevo visto all’orizzonte. Lui non si allarmò più di tanto, nemmeno quando lo portai fin sul monte perché lo vedesse. Il motivo della sua mancanza di incredulità, ipotizzai in quel momento, era che non sapeva molto bene come fosse andata con il castello precedente. Tentai di raccontarglielo nei dettagli, ma qualcosa me lo impediva, cosicché provai a convincerlo ad abbandonare il castello. Fu impossibile. Il castigo della cenere doveva ricadere su tutti noi affinché ci credessimo perché, io, per qualche motivo, non sapevo che fare.
Capitolo 22
Non ci mise niente. Quello stesso pomeriggio, io e Hugo stavamo andando in moto quando di colpo la sua moto fece un testacoda e Hugo fece un volo di vari metri e si schiantò contro degli arbusti spinosi. Corsi da lui, lo aiutai a liberarsi dai rami mentre lui gridava “Ahi, ahi, ahi, sono cieco”, e lo sdraiai a terra a pancia in su. Vedendolo, presi paura: Hugo aveva un serpentone di cenere spappolato sulla faccia. Glielo tolsi con cautela e subito sbatté le palpebre. Vedeva bene ma gli si erano aperte le cicatrici delle frustate di Anìbal. Tutte le cose peggiori che erano rimaste in agguato, adesso tornavano alla carica. Dissi a Hugo qualcosa riguardo al serpentone ma non mi prestò attenzione. Voleva risalire immediatamente sulla moto e continuare il tragitto. “Va bene”, gli dissi, e allora tentò di metterla in moto e non ci riuscì: tutta la ruota posteriore era coperta da serpentoni di cenere. Come un matto, iniziò a toglierli, ma gli si appiccicavano alle mani e gli risalivano le braccia. Anche la mia moto era danneggiata, anche se non a causa dei serpentoni. La guardammo per un po’ e non riuscimmo a indovinare quale fosse il problema. “Dovremo tornare a piedi”, mi disse Hugo. Ciò significava un’ora e mezza come minimo. Guardai il cielo: la cenere avanzava rapidamente in direzione del castello. Volevo fargli notare il problema, ma Hugo lo sottovalutò e mi accusò di vaneggiare: “È solo una tormenta”, mi disse. Lo guardai senza capire. “Hugo”, gli dissi “hai capito cosa sta succedendo?”. Lui mi guardò. Era strano, e allora vidi un bagliore nel suo sguardo e una piccola smorfia della bocca, proprio come Sumenela aveva raccontato riguardo all’altro me, e me ne resi conto: Hugo era nel buco nero; quello che stava con me era l’altro lui. Il fatto era che l’altro Hugo non era poi così diverso da Hugo stesso. L’unica differenza, mi accorsi, era che gli piaceva andare in moto e che per qualche motivo auspicava la distruzione del castello e la morte dei suoi abitanti. Questo significava che io, varie volte, avevo parlato con l’altro Hugo credendo che fosse l’abituale. Ma non potevo esserne sicuro. Per averne riprova, gli diedi un colpo in testa che lo fece svenire e mi sedei ad aspettare che si svegliasse. Ci mise alcuni minuti; in quei minuti mi sembrò di aver capito qualcosa: che se io rimanevo lì, andando in moto irresponsabilmente mentre il castello era in pericolo, era perché in qualche modo nuovo l’altro me mi aveva indotto a farlo; vale a dire che io stavo agendo per conto suo. Hugo si svegliò, e quando vidi che aveva gli occhi normali, gli chiesi cos’era successo. “Non ne ho idea”, mi disse. “E non ti ricordi la caduta?”, insistei. “Che caduta?”. “E della moto, qualcosa?”. “Che moto?”. “D’accordo. Ascoltami…”. E allora gli raccontai tutto e lui si disperò. Corremmo fino al castello vedendo come la cenere avanzava più rapidamente di noi. Arrivati, la situazione ci fece orrore: oscurità, cenere e serpentoni da tutte le parti, gente disperata che si toglieva cenere dalla bocca e dagli occhi, che caricava carretti per portarsi via le sue cose, mentre piangeva e gridava. All’entrata del cimitero, c’erano montagne di corpi ancora da seppellire. Erano gli ultimi corpi arrivati giù dal fiume; in totale, calcolai, circa quattrocento. Come poteva essere che stessero ancora lì? Come poteva essere che me ne fossi andato in moto senza curarmene? Corsi su nella mia stanza, pensando all’altro me. Lì c’era Sumenela, buttata per terra. “Andiamocene, dobbiamo andarcene”, le dissi. Mi affacciai alla finestra mentre lei metteva alcune cose in una borsa; guardai la piscina, coperta di cenere agitata dal vento; guardai la gente disperata, che correva e cadeva; e quando vidi il bosco, in fondo, mi immaginai i tre fratellini selvaggi secchi, grigi, induriti dalla cenere in cima a un albero.
Capitolo 23
Come posso raccontare ciò che patimmo nel giungere al castello di Calambra? Era simile all’altra volta, ma molto più terribile. E ciò che patimmo dopo, noi pochi che arrivammo, schiavizzati dallo stesso Calambra, che non solo non aveva liberato nessuno ma si era rifornito di nuovi schiavi che trattava peggio del peggior padrone possibile immaginabile? Ma tutto questo durò poco, perché molto rapidamente la cenere raggiunse quel castello e fummo costretti a scappare in città, dove, secondo quanto ci avevano detto, erano state prese delle contromisure. Contromisure? Io sapevo che le contromisure erano inutili, ma cos’altro si poteva fare? E come raccontare, allora, questa nuova sofferenza nello scappare dal castello di Calambra, inseguiti dalla cenere e ormai completamente stufi di scappare dalla cenere? Fu simile alle precedenti, ma molto più terribile. Quando in pochi, molto pochi, riuscimmo ad arrivare in città, gli abitanti già la stavano abbandonando in massa sulle navi. Lì mi persi tra la folla e rimasi solo. L’avanzare della cenere aveva obbligato la marina a preparare lo sfollamento totale dell’isola. Nessuno aveva delle spiegazioni su quale fosse l’origine, solo supposizioni false. In quel momento, ad ogni modo, ero già rimasto sordo, perché la cenere mi aveva intasato le parti interne delle orecchie. Riuscì a salire, da uomo libero, sulla penultima delle navi; sotto rimanevano migliaia di persone, quai tutti schiavi, che non potevano scappare dall’isola; e anche migliaia di morti non seppelliti, tra di loro probabilmente c’erano Hugo e forse anche Sumenela, che ad un momento dato avevo perso.
Quando la nave salpò, in un silenzio totale cui già mi ero abituato, appoggiato sul parapetto di poppa, vidi l’isola che si rimpiccioliva a poco a poco: una montagna coperta di cenere in mezzo alla pioggia schiumosa di cenere; vidi le tre colonne enormi e altissime di fuoco e fumo che continuavano a spargere, come dei comignoli giganti, il marciume infinito che avevo tentato di bruciare per sempre nei capannoni, e poi mi immaginai la nave vista da sopra: tutta grigia, piena di gente grigia coperta di cenere, in mezzo ad un oceano che, molto lentamente, si faceva azzurro. Ma cosa significava che l’oceano diventasse azzurro a poco a poco? Niente, in realtà. O forse sì, qualcosa di molto preciso: che a poco a poco la cenere rimaneva indietro. Alla mia destra un uomo grasso sospirava e muoveva la bocca; alla mia sinistra, una donna consolava una bambina che piangeva; dietro, qualcuno mi respirava sulla nuca. Tutti vedevamo, fino a un certo punto, una montagna nebulosa di cenere. Allora sentii un ‘tuc’ e mi si stappò l’orecchio destro. Pochi minuti dopo mi si sarebbe stappato anche il sinistro.