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    ALESSIA BIASATTO

    N .

    Non sapeva più da quanto tempo si trovava lì, immobile nella stessa posizione. Ormai non percepiva più nemmeno il formicolio negli arti che lo aveva fatto montare su tutte le furie appena risvegliato. Avrebbe voluto sgranchirsi subito ed il suo cervello, ne era sicuro, inviava il comando necessario a compiere quella banalissima operazione. Solo che il corpo non lo seguiva.

    Assisteva impotente al proprio ammutinamento fisico. Non riusciva nemmeno a parlare e lamentarsi, ma comunque: a che sarebbe servito? Da lì nessuno avrebbe potuto sentirlo. Era disperato nella sua solitaria staticità.

    Era stato un uomo molto dinamico, un tempo, abituato a spostarsi sempre, ad agire d’impeto. Anche con le sue donne, sì, che ne temevano il temperamento, mentre ora avrebbero provato solo una profonda compassione nel vederlo.

    Era ridotto ad un vegetale, pensava con rammarico.

    Eccezion fatta per un unico, piccolo, inutile movimento che Iddio gli aveva concesso. Non sapeva se per un atto di misericordia o di estrema crudeltà. Poteva infatti muovere le dita dei piedi, e se si impegnava di più, addirittura la pianta ed il dorso.

    Ma, in una situazione simile, questa misera concessione assumeva le forme di una iattura.

    Perché non gli era dato di distendere il braccio piuttosto? Sarebbe servito a mantenere l’equilibrio, se non altro.

    I piedi mobili su quel corpo indurito dagli anni e dal destino invece, gli davano solo un’insopportabile sensazione di instabilità.

    Fantasticava che prima o poi non avrebbero retto quella pesantezza e sarebbe caduto in avanti.

    Non smetteva di pensare ossessivamente:- “Il colosso dai piedi di argilla…il colosso dai piedi d’argilla!”-. Stava diventando pure autistico.

    Era spaventato, anche perché si trovava in un punto altissimo: centosessantacinque piedi, secondo i suoi calcoli. E non era uno che li sbagliava, i calcoli. Il peggio era che, non capiva come mai, ma tutto intorno era circondato dal vuoto totale.

    Dove poggiava i piedi, infatti, c’erano solo alcuni centimetri di pietra in eccedenza rispetto alla sagoma delle sue suole: per il resto solo nuvole, nebbia, aria: nemmeno tanto pura.

    Anche se avesse potuto muoversi, come si poteva fuggire da quel picco isolato? Non aveva alcuna esperienza di montagne e di scalate. Se ne era sempre tenuto sapientemente  alla larga.

    E questo soprattutto perché le vertigini erano sempre state la sua unica, grande debolezza.

    Non le aveva mai confessate a nessuno: se ne vergognava moltissimo, da giovane.

    Poi, una volta cresciuto, era sicuro che un difetto del genere gli avrebbe senz’altro rovinato la reputazione di “duro”. Non ne aveva fatto parola nemmeno con il suo padre confessore, per non tradirsi.

    Tuttavia, era innegabile che le vertigini avessero pesantemente condizionato le sue scelte di vita.

    Fin da piccolo, infatti, adorava i cavalli ma l’idea di trovarsi sempre in sella, magari su uno di quegli imponenti stalloni di rappresentanza, lo aveva fatto desistere dall’arruolarsi in cavalleria.

    A dodici anni aveva quindi virato di netto sulla marina: era stata una scelta di ripiego, ma nessuno se ne sarebbe mai accorto, lo aveva giurato a suo padre. Si sarebbe distinto sul mare, per compensare quella mancanza di ardimento.

    Anche lì comunque non aveva avuto vita facile all’inizio. Soprattutto quando all’accademia gli avevano chiesto di salire su quel maledetto albero maestro nel piazzale della scuola. A che serviva? Imprecando, mentre si arrampicava, aveva pensato: questo è un lavoro da mozzi! Le gocce di sudore freddo gli scendevano lungo le tempie allora come adesso, mentre si trovava su quel dannato picco di pietra.

    Come quella volta da ragazzo, provava a non guardare in basso, e, per certi versi, si rallegrava di non riuscire muovere la testa per non cadere in tentazione.

    Il desiderio di sporgersi era forte, ma una volta cedutogli,  sapeva che una forza invisibile lo avrebbe attirato verso il basso. Si conosceva sin troppo bene.

    Gli sarebbe sembrato che tutti gli oggetti sotto di lui girassero in un vortice fino a dargli la nausea. Cosa avrebbe fatto a quel punto? Di sicuro non poteva vomitare da lì su.

    Figuriamoci, non era nel suo stile, né il comportamento consono a un Lord.

    Sbirciava in giù con un occhio soltanto e già sentiva quella solita bolla d’aria che scendeva giù lungo l’esofago, irraggiandogli lo stomaco di un vuoto tremendo. Passava le sue giornate diviso tra l’ansia ed il rimpianto.

    Ah, se solo avesse saputo che la reincarnazione era così…! Quante cose  avrebbe cambiato della sua vita!

    Di certo l’altezza di un cavallo gli sembrava irrisoria in confronto al baratro che doveva sopportare ora, una volta resuscitato.

    Tanto valeva scegliere la cavalleria allora. Forse gli avrebbe permesso una vita più tranquilla, tutto sommato.

    Anche se non era un fenomeno dell’equitazione si sarebbe distinto in qualche azione secondaria ed ora magari si sarebbe goduto il velluto rosso e la tranquillità di una bara sicura, nel basso della cripta di una cattedrale.

    Avrebbe potuto apprezzare le gioie della vita di campagna, anziché sfidare i marosi, e magari sarebbe morto tutto intero, con ancora il suo braccio ed il suo occhio al loro posto. Eh sì: ora un altro occhio gli avrebbe fatto comodo per dare il cambio a quello sinistro sovraffaticato: si stancava a mantenere lo sguardo indomito.

    E invece era lì in alto, guercio, sofferente e terribilmente contrariato, con un broncio che adombrava il suo piglio glorioso. Quella era l’unica trasgressione che si concedeva da quando aveva abbandonato i piani di fuga. Iniziava a farsi vecchio anche nella seconda vita.

    Del resto l’Inghilterra si aspettava che ogni uomo compiesse sempre il proprio dovere fino alla fine dei giorni e lui adempieva stoicamente al suo.

    Sopportava persino tutte le orde di francesi che con quei lampi sintetici gli facevano lacrimare l’occhio buono. Menomale che nessuno riusciva a vederlo: lui non piangeva mai, figuriamoci per una fotografia. Ah, quanto avrebbe voluto inseguirli ancora una volta, i nemici d’ oltremanica: non solo lo avevano fatto fuori, ma adesso lo accecavano pure per vendicarsi delle sconfitte.

    Lui, comunque, resisteva impassibile.

    Sopportava addirittura quegli smidollati che sentiva gridare da sotto, tutti eccitati: “Guardate lì in alto sulla colonna: è l’ammiraglio Trafalgar”! Sopportava i piccioni irriverenti sulle spalle ed il rumore assordante delle vetture.

    Ma gli italiani no, quelli proprio non li poteva soffrire: a loro lanciava giù la polvere del basamento agitando le dita dei piedi nervosamente. Che diavolo: avrebbero smesso o no di chiamarlo ammiraglio Square?!

    Che importa se ora si era reincarnato nella sua statua e centinaia di automobili sfrecciavano sprezzanti accanto al suo piedistallo? Lui era Nelson, l’unico e irripetibile Orazio Nelson, primo duca di Bronte ed Eroe nazionale dell’Impero. Dall’alto della sua colonna, nella piazza più importante di Londra, li dominava ancora tutti.