Solo pochi anni fa il feedback dei vari Marco Polo tornati dalla Cina o dal Giappone era molto uniforme: bellissimo, affascinante, ma al di fuori delle capitali nessuno parla inglese. Il che li rendeva degli avventurieri agli occhi di tutti perché erano stati così arguti da farsi scrivere bigliettini da amici orientali per poi consegnarli ai taxi, oppure da procurarsi in anticipo istruzioni nero su bianco nelle reception degli hotel visitati. Il tutto con una perdita di comunicazione importante perché nel dialogo questi viaggiatori non erano andati molto oltre le esigenze quotidiane del turista. A perderci era l’interazione con la popolazione più vera, quella che neanche per scherzo intende qualcosa di diverso dai logogrammi, eppure è la vera protagonista di mercati, templi e villaggi. I luoghi, insomma, dove più pulsa la vita.
Io, per questo, non avrei mai immaginato di poter discutere senza aiuti con un cuoco giapponese sul fatto che avesse o meno la licenza per cucinare il fugu.
Non mi sarei arrischiata a mettere a repentaglio la mia vita in un ristorante di Tokyo senza capire al 100% le rassicurazioni del solo detentore della famosa patente per cucinare il pesce palla. Infatti detto pesce è velenosissimo. Solo se si asporta attentamente la parte adiacente agli organi interni, zeppi di tetra diossina, si può considerare di non correre pericolo di morte.
Pertanto l’abilità dello chef viene ufficialmente riconosciuta in un esame di stato, dove si rilascia un certificato scritto solo in Giapponese.
Certo, menomale, perché l’effetto derivato dall’ eventuale ingestione della sostanza tossica inizia con una paralisi alla lingua che diviene presto blocco respiratorio e poi si tramuta in morte nelle quattro-sei ore successive.
Però voi vi fidereste di un foglio con quattro scarabocchi? E soprattutto sapreste richiedere che vi venga mostrato?
Forse qualcuno sa dell’ esistenza del fugu grazie ai Simpson: sì ragazzi, è proprio il pesce col teschio sulla schiena, quello che si mangia Homer nella seconda stagione! Solo che quando te lo trovi in piatto non fa più tanto ridere e desideri ardentemente parlare un Giapponese fluido per avere delle garanzie comprensibili.
E come fai a quel punto, nell’anno 2016?
Molto semplice: tiri fuori il tuo smart-phone, dove hai appena scaricato l’applicazione “I TRANSLATE”, e intavoli una discussione alla pari con il maitre.
Io non sono esattamente una malata di tecnologia ma posso solo che tessere le lodi di questo magnifico strumento, in grado di cambiare la vita a qualsiasi viaggiatore.
In pratica, scrivendo un testo anche complesso in italiano, in pochi secondi ottieni la traduzione scritta in Giapponese, sia in alfabeto Romaji (quello con caratteri latini, per intenderci, in modo da poterlo vocalizzare tu) sia in Kana e Hiragana, ovvero i caratteri con cui scrivono i giapponesi.
E a quel punto stabilisci una comunicazione entusiasmante con chiunque ti trovi davanti. Dal pescivendolo all’imperatore, ti viene voglia di chiedere sempre più dettagli ai depositari di questa cultura così amichevole e ricca.
Tutto quello che hai sempre pensato e non avresti mai osato chiedere, insomma. E’ molto meglio che parlare nel nostro e nel loro inglese deficitario: si elimina quasi completamente il lost in translation e quella naturale diffidenza tra orientale e occidentale sembra evaporare poco a poco insieme al fumare del Ramen.
A questo punto per la comunicazione quotidiana sei più che a posto e puoi tornare in patria con tanti più aneddoti, anche un Milione, se hai tempo e batteria sufficiente!
Ma può darsi che la tua curiosità vada ancora oltre e che ti stuzzichi il fatto di leggere pure i cartelli, i fumetti, le scritte che vedi per la strada.
Se ti sei intrippato così tanto c’è per te una soluzione successiva: l’applicazione “YOMIWA”.
Grazie al collegamento con la fotocamera, potrai fotografare qualsiasi scritta e poi consultare sul vocabolario integrato il significato dei segni grafici, che l’applicazione scompone in riquadri. E’ un po’ come fare una versione di greco o latino perché c’è bisogno di scegliere tra le varie combinazioni di significati, dunque l’interpretazione è fondamentale. Inoltre, c’è anche da ricordarsi che in Giapponese si legge dall’alto al basso e da destra a sinistra.
Diciamo che, da principiante, sarai lusingato dal capire almeno il senso generale del testo. Se però tornato a casa vorrai approfondire, YOMIWA – compreso nei suoi 5 euro di prezzo – ti offrirà anche una funzione in cui sei tu a tentare di disegnare i simboli che ti creano tanta smania. Anche se sei negato nel disegno, YOMIWA-SAN tenterà di non farti pesare il fatto che produci solo sgorbi incomprensibili e ti darà comunque il significato più vicino possibile alla realtà dei logogrammi esistenti. Mi sento di incoraggiare tutti a provare, è molto divertente.
Ad ogni modo, per evitare che questa droga porti al tracollo finanziario, consiglio di attivarla con una SIM giapponese. Il roaming culturale potrebbe infatti stimolare la mente e risparmiarti delle intossicazioni, ma forse creare anche una non meno seria paralisi del portafoglio.
Il Giappone in una App diAlessia Biasatto è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Based on a work at https://dontstoptravel.com/2016/04/01/il-giappone-in-una-app/.
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